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Pacifismo/ Marco Revelli. La storia di un grande perplesso

Fu grande amico di Capitini. Lo stimava. ma contestava il suo utopismo. "Bobbio era un pacifista istituzionale. Non si faceva illusioni sulla natura umana".

di Giuseppe Frangi

Di Norberto Bobbio, Revelli è stato allievo. Un allievo che ancora s?emoziona ricordando il clima che si respirava nell?aula magna di Palazzo Campana quando scoccava l?ora della sua lezione. “Feci con lui l?esame di Filosofia del diritto, sul giusnaturalismo. Ma lo conobbi da liceale: venne infatti a tenere una lezione su Croce nel mio istituto, il Silvio Pellico di Cuneo. Il bello di Bobbio era la sua permeabilità: i rapporti con le persone lo interessavano realmente. Rispondeva a tutte le lettere. Leggeva tutti i testi che gli venivano sottoposti e dava il suo giudizio.
Vita: Si lasciò ?permeare? anche da un personaggio pur così diverso da lui come Aldo Capitini. In che termini Bobbio fu pacifista?
Marco Revelli: Fu un pacifista istituzionale. Nel senso che credeva che le vie della pace fossero quelle di un ente che fosse al di sopra dei contendenti. In questa sua visione del terzo super partes, ovviamente l?Onu ricopriva un ruolo decisivo.
Vita: Quindi era un pacifista molto diverso da Capitini…
Revelli: Certamente, per quanto lo stimasse e lo considerasse amico. Lui sapeva che c?erano altre accezioni di pacifismo, religioso o etico. In un saggio stupendo davanti a Capitini che si era autodefinito ?il persuaso? si contrappose come ?il perplesso?. “Il persuaso”, scrisse, “è l?uomo in cui l?impegno pratico prevale sull?impegno contemplativo”.
Vita: E invece il perplesso chi è?
Revelli: È l?uomo del dubbio. È colui che si cala in tutt?e due le parti in conflitto, per cercare di capire le ragioni di uno e dell?altro. Che cerca tutte le strade per evitare il disastro. Perché in lui il lato teorico faceva sempre i conti con il realismo.
Vita: Ma il perplesso è anche pessimista…
Revelli: Bobbio sapeva benissimo che il mondo non è quello che uno desiderebbe fosse. Non confondeva realtà e desiderio. In questo aveva una fortissima coscienza del male, la coscienza che l?uomo non è naturaliter buono e che quindi se non si dà degli strumenti, anche istituzionali, per limitare questa sua condizione non scampa al disastro, al conflitto permanente.
Vita: Si trovò mai su posizioni diverse dalle sue?
Revelli: Sì, in occasione della prima guerra del Golfo. Lui era favorevole e parlò di guerra giusta. Io non ero d?accordo. Ma mettendomi nei suoi panni posso anche capirlo. Innanzitutto era una guerra sotto il cappello dell?Onu, e quindi coerente con la sua idea di ?pacifismo istituzionale?. In secondo luogo quella era la risposta a un atto di aggressione. Anche in quei momenti di dissenso, il confronto con lui non è mai venuto meno. Era sempre interessato alle ragioni di uno come me che era su posizioni diverse. E poi giocava un altro fattore…
Vita: Quale?
Revelli: Quello generazionale. Mi faceva sempre riferimento al patto di Monaco e al cedimento delle grandi potenze di fronte all?arroganza della Germania, con tutto quello che ne seguì. La guerra, per chi aveva vissuto quell?esperienza, era una soluzione a un?ingiustizia estrema. Ma anche in queste circostanze restava quello di sempre, un uomo antropologicamente pacifico. Un uomo istintivamente portato all?interesse per l?altro.
Vita: E sull?ultimo pacifismo, quello delle bandiere arcobaleno, non avete avuto confronti?
Revelli: No. Negli ultimi anni, quando lo incontravo, preferiva parlare di cose private. Era attento a tutto, anche se restava un uomo tormentato, consapevole del carattere tragico della condizione umana. Razionalmente sistematico, pur nella piena coscienza dell?irrisolvibilità della storia e dell?impossibilità di darsi una risposta ultima. Ma era come sempre, privo di retorica e di autoconsolazione.

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