Cultura

Our war, non è la nostra guerra

Sfilano sul red carpet, in tuta mimetica da combattenti, con lo stemma giallo del YPG curdo, rilasciano autografi e si concedono ai selfie. Sono i protagonisti del documentario di Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia che racconta i “foreign fighters buoni”

di Monica Straniero

Sfilano sul red carpet, in tuta mimetica da combattenti, con lo stemma giallo del YPG curdo, rilasciano autografi e si concedono ai selfie, i protagonisti del documentario Our War, presentato Fuori concorso alla 73. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Il film di Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia. racconta la storia dei foreign fighters “buoni”, ovvero di tanti giovani occidentali che hanno scelto rischiare la vita per andare sul campo a combattere l'autoproclamato Stato Islamico, in Siria ed Iraq.

I protagonisti di Our War sono un ex marine statunitense, un italiano di Senigallia, che si definisce attivista politico e una guardia del corpo svedese. Tutti e tre sono accomunati dalla stessa scelta: arruolarsi come volontari nelle Unità di Protezione Popolare (YPG) il braccio armato del partito curdo che governa il Rojava, la regione della Siria settentrionale dove abita la maggior parte dei curdi siriana.

Le immagini dei tre ragazzi durante i combattimenti si intrecciano con la vita quotidiana negli Stati Uniti, in Svezia e in Italia, con il ricordo dei compagni morti e l’impegno a sostenere la lotta dei curdi. Perché prima di imbracciare il kalashnikov Karim, Joshua e Rafael, hanno fatto una vita normale, come i loro coetanei.

Nel suo libro “Il combattente”, Marcello Franceschi, che si fa chiamare “Karim”, ventisei anni, figlio di padre ex partigiano e madre marocchina, racconta di essere arrivato a Kobane come soldato semplice, per poi diventare un abile cecchino. Per essere arruolati tra le file delle milizie curde non è così difficile. E’ sufficiente un semplice colloquio sui social network, come Facebook.

Ma perché questa scelta? Non per soldi sostengono i tre ragazzi ma per ragioni umanitarie ed ideologiche. Dicono di aver voluto aderire alla causa del popolo curdo, la più numerosa etnia al mondo senza una nazione. “In Italia siamo abituati ai nostri politici che si riempiono la bocca con parole come democrazia e libertà, dice Marcello/Karim, invece a Kobane si è pronti a sacrificare la vita per questi valori e per il mondo intero. Perché in questa lotta è in gioco anche il futuro dell’Isis, il principale nemico dell’YPGE”.

Eppure non si può che rimanere perplessi di fronte ad un film che rischia di contribuire ad accendere il fuoco dell’odio e della violenza “Al contrario – precisa il regista Bruno Chiaravalloti. «Questo lavoro mostra il dolore, la fatica e la paura di chi decide di lasciare tutto per aiutare una popolazione che lotta per la democrazia in Siria. Quel che mi auguro è che la gente continuamente bombardata dai media, finalmente prenda coscienza di quello che sta realmente accadendo laggiù».

E allora la domanda è: i foreign fighters che combattono contro l’Isis stanno dalla parte giusta e quindi vanno sostenuti? Secondo Oliver Roy, esperto dell’Islam e consulente Onu in Afghanistan, non sono invece molto diversi dai jihadisti. In un’intervista all’Indro nel 2014, l’orientalista definì addirittura nichilisti i volontari filo-curdi. «Sono sempre giovani in cerca di avventura. Il turismo militare non è di adesso. E’ la nostra percezione a cambiare, magari accettiamo chi va con i curdi e condanniamo i jihadisti».

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