Famiglia

Otello no global

Una compagnia cambogiana, quasi tutta femminile, ha messo in scena una versione straordinaria della tragedia shakespeariana.

di Luca Doninelli

“Bisogna essere pronti”, scrisse L. Wittgenstein, “a imparare qualcosa di completamente nuovo”. Per cogliere il nuovo, infatti, bisogna saperselo aspettare.
Non molti si sono accorti, ad esempio, della novità che la Biennale di Venezia, sezione teatro, diretta quest?anno dall?americano Peter Sellars, offriva rispetto al solito panorama nazionale. Poi ci lamentiamo perché non c?è niente di interessante, mentre spesso ciò che manca è la nostra voglia di cose interessanti. Perché l?interesse destabilizza, ed essere destabilizzati spesso non piace.
Il festival di Venezia ci offriva nei giorni scorsi un programma teatrale, ma con contorno di incontri e proiezioni di film, decisamente destabilizzante, e io voglio parlarne qui, dove di solito non si parla di teatro, perché questa mi sembra la sede più adatta (e Dio voglia che lo diventi sempre di più) dove registrare l?importanza vera, concreta di un avvenimento.
Gli spettacoli teatrali veri e propri sono stati solo due. Idea giustissima. Due col botto è meglio che dieci al rimpolpo.
Tanto per capire il tipo che è Peter Sellars, sentite cosa disse al festival di Salisburgo undici anni fa: “Con ciascuno di questi monitor, anche uno solo, si potrebbe sfamare una famiglia in Somalia per i prossimi due anni? qui siamo invece a Salisburgo, con una bella opera di Messiaen su San Francesco, in un festival dove i biglietti costano 350 dollari a botta. E mettiamo su un?opera che parla di uno che fa voto di povertà”.
Si tratta rispettivamente di uno spettacolo cambogiano e di uno neozelandese-maori.
Lo spettacolo cambogiano s?intitola Samritechak ed è una versione dell?Otello shakespeariano realizzata da una compagnia quasi completamente femminile, secondo i modi della danza tradizionale cambogiana. La regista e coreografa è Sophiline Cheam, poi sposata Shapiro, che scampò per miracolo ai campi di sterminio di Pol Pot e decise di dedicare la vita al recupero di ciò che il carnefice odiava sopra ogni altra cosa: la tradizione, l?eredità che i padri, i nonni e i bisnonni avevano lasciato alla disgraziata generazione presente. I boat people che lasciavano quella sciagura per trovare, spesso, altre sciagure, non portavano con sé altro che la memoria.
Il senso della venuta a Venezia di questo spettacolo sta nel coraggio con il quale l?arte di un Paese lontano usa la propria tradizione per parlare al mondo. Parlare al mondo con la propria lingua, non con quella della globalizzazione: io credo che questa sia una definizione davvero egregia di che cosa sia cultura.
Così, ecco sotto i nostri occhi un Otello arricchito di una forza espressiva a noi ignota, che modifica la lettura del testo shakespeariano, trasformando i personaggi della storia in forze cosmiche, con un Jago cattivo e subdolo fin da principio, vestito d?un rosso osceno, che nessun bene, nessuna impresa virtuosa, nessun amore di uomo e donna riesce a tener lontano: perché questa, sembra dire Sophiline Cheam Shapiro, è una forza universale che non è in nostro potere eliminare.
L?altro spettacolo, Paradise, dell?artista-sciamano neozelandese maori Lemi Ponifasio, usa più disinvoltamente gli strumenti del teatro contemporaneo (con musiche veramente strepitose) per offrirci un mito, e rito, delle Origini attraversato dagli inquinamenti di un mondo esterno che si è voluto soltanto invasore, predatore. Lo spettacolo, di grande suggestione, è introdotto da un canto maori dei rematori di canoe e si conclude con il pubblico che viene invitato a dire la propria opinione (si tratta perlopiù di ringraziamenti) davanti alla compagnia che ha rappresentato l?opera.
Così, in modi diversissimi tra loro, due culture lontane e antiche cercano di leggere la nostra storia, con originalità e con rispetto, dimostrando che la vocazione all?universalità non appartiene solo all?Occidente. Spesso noi pensiamo di essere i soli a praticare la tolleranza e il pluralismo in un mondo di integralisti, di fanatici o di primitivi, mentre tutte le culture, quando non siano bloccate e corrotte dalla ?paura della diversità?, possiedono questa stessa capacità di accoglienza e di comprensione, e soprattutto di arricchimento.
La sentenza che proibisce l?esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane è frutto dell?idea malata secondo cui la diversità (tra culture, fedi, caratteri) è un limite alla convivenza e una fonte di odio. Non è così. Il crocefisso è un segno di amore per tutti gli uomini del mondo, così come un Otello cambogiano, se realizzato con chiarezza, può essere ammirato con profitto da chiunque.
Questo spettacolo è stato preceduto e seguito da due eccezionali conferenze, nelle quali due grandi intellettuali, Amin Maalouf (libanese) e Toni Morrison (americana, Nobel 93) hanno parlato non di giustizia sociale o di flussi migratori, bensì di lui, di Otello.
Ma ci sono state anche conferenze sull?alimentazione (con Alice Waters), e film: uno della Guinea, uno curdo, uno australiano e uno canadese, tutti dedicati al tema delle diversità e difformità sociali.
Io ho visto quello australiano, Beneath Clouds, su una ragazza straziata per essere figlia, bionda, di un?aborigena e di un irlandese separati. La ragazza, costretta a vivere in un mondo di aborigeni, rivuole suo padre e fugge per imbarcarsi a Sidney verso l?Irlanda. Sulla strada incontra un ragazzo aborigeno fuggito dal riformatorio. Non nascerà nessun amore, ma l?intuizione che le radici umane stanno nel nostro bisogno di libertà e non nell?etnìa (una morale che non ha niente di illuminista, ma è soltanto vera).
Voglio esprimere la mia riconoscenza per il lavoro compiuto da Peter Sellars, le cui parole a proposito di Salisburgo non sono rimaste la bella uscita di un artista di sinistra un po? moralista, ma si sono trasformate in un progetto per un modo diverso di concepire il teatro, lo spettacolo, la funzione dell?avanguardia e, soprattutto, la funzione della cultura. E, come per tutte le cose importanti, se ne sono accorti in pochi.
Il nemico mortale della conoscenza è la scontatezza. Diventiamo sempre più furbi, sempre più smaliziati, sempre più capaci di spaccare il capello in quattro, ma al solo scopo di lasciare le cose come stanno.
Per vedere il nuovo non basta avere dimestichezza con le vecchie categorie, bisogna essere disposti a impararne di nuove (la novità comprende infatti anche il metodo).

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