Dopo una settimana di passione, ieri pomeriggio, sabato 20 aprile – spento cellulare, pc ed ogni altro mezzo di comunicazione – mi sono immerso, insieme ad una quindicina di amici partecipanti, nell’ultimo appuntamento del laboratorio di ricerca su le parole della nonviolenza presso la Casa delle culture di Modena.
Mentre è da poco iniziato il sesto scrutinio per l’elezione del presidente della repubblica, trovarsi, come da programma, a commentare coralmente il capitolo sui principi di una strategia politica nonviolenta de “L’antibarbarie” – l’ormai classico lavoro del filosofo Giuliano Pontara sulla “concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo” – è vissuto da tutti i presenti non come una fuga dalla realtà politica che si svolge sincronicamente nel chiuso del Parlamento e tiene incollati milioni di italiani ai social network, ma come un posizionarsi su un’altura all’aperto che fornisce ossigeno al cervello e consente uno sguardo prospettico, capace di buona osservazione e di fornire indicazioni per il giusto cammino in avanti.
I sei principi di azione politica che Giuliano Pontara elabora e propone ai movimenti impegnati per il cambiamento, a partire dall’esperienza del satyagraha gandhiano – e sui quali lavoriamo dal basso collettivamente – acquistano per tutti la rinnovata dimensione di punti di riferimento fondanti e generali, proprio alla luce dell’indecoroso spettacolo offerto da molti “professionisti” e “dilettanti” della politica che hanno portato il nostro Paese ad una crisi istituzionale senza precedenti nella storia repubblicana, che si somma drammaticamente alla crisi economica e sociale che coinvolge l’esistenza materiale di tante persone. Ciò di cui parliamo non sono mere “tecniche” di azione diretta, ma la traduzione nel campo dell’azione politica di precise esigenze etiche, la costruzione di un metodo.
Il fondamento generale che sta alla base dei principi che esploriamo è una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto alla tradizione culturale ed alla prassi politica consolidata: il fine non giustifica mai i mezzi, anzi “il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra mezzo e fine vi è esattamente lo stesso inviolabile nesso che c’è tra seme e albero”, come recita la celebre definizione gandhiana. La portata di questo fondamento, se assunto davvero e fino in fondo, è tale da consentire la ricomposizione della sciagurata scissione tra etica e politica che – da Machiavelli a Max Weber ai giorni nostri – ha accompagnato non solo la bassa cucina dell’agire politico quotidiano ma i fondamentali stessi delle teorie politologiche. E’ tale, dunque, da consentire l’espulsione dalla politica dalle tentazioni violente, in qualunque grado e intensità esse si manifestino.
Da qui il primo principio indicato da Pontara, l’astensione dalla violenza e dalla sua minaccia: il conflitto, anche aspro, al quale pure non ci si deve sottrarre, non può prescindere dal rispetto per la dignità dell’avversario il quale, per esempio, non può essere messo in una situazione di paura o di panico, anche perché, tra le altre cose, in una situazione del genere egli sarà più facilmente portato a ricorrere all’aggressione preventiva. Per questo motivo, il secondo principio strettamente connesso al precedente, è l’adesione alla verità: la menzogna e l’inganno sono già una forma di violenza. Il mentire è una violazione della dignità delle persona, anche avversaria, “di un suo diritto basilare a presupporre che non la si inganni”, così come lo è il distorcere i fatti a proprio vantaggio, piuttosto che cercare di capire il punto di vista dell’altro. Poi la disponibilità al sacrificio personale, che non è virtù religiosa ma eminentemente politica in quanto attiene alla disponibilità a sacrificare i propri interessi personali a vantaggio di quelli di tutti, assumendosi la responsabilità di metterci del proprio per portare avanti la causa nella quale si è impegnati. Quindi l’impegno nel programma costruttivo, ossia la realizzazione qui ed ora, per come è possibile, di quegli obiettivi per i quali ci si batte; il non rimandare a domani, all’ipotetica “presa del potere”, il cambiamento che si vuole vedere, ma cominciarne la pratica personale e collettiva a partire da sé e da noi.La disponibilità al compromesso con l’avversario, ma solo sugli obiettivi considerati non essenziali. Questo quinto principio attiene allo sforzo di non mettere nessuno con le spalle al muro, di lasciare sempre una “soluzione onorevole” in ogni conflitto, ma ribadisce altresì che la mediazione può avvenire esclusivamente su quelli che non sono sentiti come gli obiettivi fondamentali della lotta. Infine la gradualità dei mezzi: non si deve ricorrere subito ai mezzi più drastici di azione, seppur nonviolenti, senza aver prima esplorato quelli più leggeri, preparandosi tuttavia “ad una resistenza sempre più radicale senza ricorrere alla violenza, anche nel caso in cui il conflitto dovesse procedere verso forme più acute.”
Questi punti mi pare che costituiscano gli elementi indispensabili di un metodo di lavoro politico nuovo ma “antico come le montagne”, che è tempo che i movimenti per la pace, il disarmo e i beni comuni – che si ispirano ai principi della nonviolenza – ricomincino a praticare direttamente, senza limitarsi a fare gli spettatori e i tifosi tra i “professionisti” e i “dilettanti” della politica. Sempre più complementari nei rispettivi ruoli.
Finito il denso incontro, riaccesi i mezzi di comunicazione, capiamo che il vecchio Presidente ottantasettenne è stato rieletto presidente della repubblica da un parlamento che invece era stato eletto dai cittadini sull’onda di una travolgente richiesta di cambiamento. La Costituzione è sotto stress. Un pò di gente è in piazza a protestare.
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