Non profit
Oralista cognitivo, l’arte di far parlare i sordi
Il Centro di terapia logopedica di Milano
In un centro privato a Milano, da anni è stato messo a punto un metodo grazie al quale anche chi ha deficit uditivi impara a comunicare con la voce. E non con il linguaggio dei segni. La dottoressa
“Defi” è l’artefice di questa
terapia innovativa
«Guarda la Defi». La Defi fa boccacce allo specchio, si soffia sulla mano, con due dita a pinza si stringe le guance, proprio agli angoli della bocca. Clara, seduta accanto, si guarda nello specchio e cerca di copiarla. Deve essere identica alla Defi. «Gia», ripetono. «Giacca», «pigiama», «Giacomo mangia». Clara ha 9 anni, è sorda al 60% e sta imparando a parlare. La Defi è la professoressa Adriana De Filippis, di anni ne ha 81 e gli ultimi cinquanta li ha spesi con bambini sordi, afasici, tetraparetici, con deficit cognitivi. Di bambini sordi ne ha fatti parlare «5mila, dal 1958 al 1994, poi sono andata in pensione e non ho più tenuto il conto». Parlare con la voce, come tutti, non comunicare attraverso la lingua dei segni. E parlare bene: «Genitori e insegnanti a volte sono pelandroni, quando il bambino si fa capire si accontentano. Invece le parole devono fargliele dire perfette», spiega. Alcuni dei suoi ex bambini, quelli che sulle pareti sorridono dalle foto con i colori virati al rosso, anni 70 o giù di lì, ogni tanto tornano per «rifarsi lo smalto», magari prima della discussione della tesi di laurea o di un appuntamento importante di lavoro.
Con Clara, dopo tre anni di logopedia classica, alla Asl si erano arresi: «Non parlerà mai. L’unica è che impari la Lis». Dopo tre anni di metodo De Filippis, Clara scandisce benissimo: «Io e il mio papà, a Milano, mangiamo la pizza». La pizza, poi, quasi la urla. Clara e il suo papà a Milano vengono dalle montagne di Vittorio Veneto, una volta ogni quindici giorni. Dodici ore fuori casa per un’ora di terapia. La Defi, da parte sua, continua ad andare su e giù per l’Italia per incontrare le maestre, spiegare gli esercizi, assegnare compiti a casa, distribuire i cartoncini delle “frasi-colore”, un colore per complemento, perché «visualizzare aiuta a parlare».
Vittorio, il papà di Clara, per esempio, si è portato in treno la valigia degli esercizi: una decina di sacchetti del freezer pieni di oggettini, un pigiama della Barbie, un gioiello di plastica, una pagella per il sacchetto del “g”, tutti con la loro brava etichetta da abbinare. E chicchi di grano, cacao, una coppa e un cane di peluche in quelli della “c”. Più i quaderni: Clara frequenta la seconda elementare, ha l’insegnante di sostegno e segue il programma normale. «Do il mio cellulare ai genitori e alle maestre, lo tengo sul comodino anche di notte. Sanno che per i miei bambini mi possono disturbare sempre», dice. E il sorriso di Vittorio fa capire che è vero.
Sono quasi le due. Clara strilla perché vuole andare da McDonald. «Pensare che noi abbiamo l’orto biologico e facciamo il pane in casa», sospira il papà. Ma se combatte questa battaglia, lui ha già vinto.
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