Welfare

Ora una rassegna internazionale

Si è abbassato da poche ore il sipario su "Il carcere invisibile e i corpi segregati" ma Davide Rampello non ha alcuna intenzione di relegare il tema della reclusione all’album dei ricordi

di Redazione

Tempo di bilanci, ma soprattutto di programmi. Si è abbassato da poche ore il sipario su Il carcere invisibile e i corpi segregati, ma Davide Rampello, presidente della fondazione Triennale di Milano, non ha alcuna intenzione di relegare il tema della reclusione all?album dei ricordi. Vita: Dobbiamo attenderci una nuova edizione della mostra? Davide Rampello: Non credo sia una buona idea. Questa è stata un?esperienza straordinaria per diversi motivi. Per una volta infatti siamo riusciti a smarcare certi argomenti dall?ambito chiuso degli addetti ai lavori. In questo luogo deputato per natura alla rappresentazione e ai linguaggi siamo riusciti a trasmettere un messaggio di civiltà utilizzando il più largo ventaglio di codici possibili. Il cinema, la fotografia, il teatro, il dibattito pubblico. La gente che è venuta al Palazzo dell?arte ha vissuto un contatto empatico, fatto di corpo e di senso, con la realtà del carcere. Replicare un?esperienza del genere significherebbe sterilizzarne la portata. Vita: Qual è invece la strada da seguire? Rampello: Quest?anno abbiamo ?liberato? il teatrino del carcere di Bollate e lo abbiamo portato, fisicamente, in Triennale. Il prossimo anno celebreremo in questo stesso spazio la prima rassegna internazionale di teatro penitenziario. Il teatro rappresentato da chi frequenta in modo così intenso il dolore, la rabbia, la speranza e la fede riesce ad avvicinarsi in modo straordinario all?uomo e alla verità. Vita: Si può dire che questo evento costituisce una svolta per la Triennale? Rampello: L?obiettivo della cultura è quello di aumentare la capacità di integrazione di una città e dei suoi cittadini. Il carcere arriva dopo La Città infinita e una mostra sui graffitari. Nel 2008 invece dedicheremo una rappresentazione alla vecchiaia-saggezza. Il filo rosso è sempre lo stesso: rappresentare l?uomo. Perché la sofferenza della solitudine di un carcerato può essere la stessa di un writer.


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