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Ora Milano rilancia, mandiamo l’authority a scuola d’inglese

In Inghilterra si chiama Charity Commission ed esiste da quasi 150 anni. Lavora bene,ha ampi poteri ed è davvero uno strumento indipendente di difesa e sviluppo del Terzo settore.

di Gabriella Meroni

Se in Italia l?authority per il Terzo settore è stata prevista solo tre anni fa ed è già in ritardo di due anni sui tempi previsti dalla legge, in Inghilterra ci hanno fatto l?abitudine da un secolo e mezzo. Correva l?anno 1853,infatti, quando oltre Manica decisero di istituire una Commissione (la Charity Commission) che controllasse e indirizzasse il vasto mondo delle charities, le organizzazioni del privato sociale composte da volontari al servizio del bene pubblico. Niente di strano del resto in un paese che il primo atto di indirizzo sulla solidarietà l?aveva promulgato addirittura nel 1601, quando il Parlamento fissò con un atto ufficiale la struttura delle organizzazioni di assistenza con lo scopo di sovvenire ai bisogni dei poveri tramite la generosità dei ricchi. Adesso che l?authority sembra in dirittura d?arrivo anche da noi, abbiamo voluto incontrare il professor Richard Fries della London School of Economics, che ha presieduto la Charity Commission per l?Inghilterra e il Galles dal 1992 al giugno di quest?anno, per farci spiegare come funzionano le cose nella patria del non profit. Per uno come lui, parlare del Terzo settore italiano dev?essere un po? come fare un tuffo di secoli indietro nel tempo. Eppure eccolo qui, gentile, misurato e molto british, a spiegarci come funziona l?authority inglese, che proprio lui ha riformato nel ?93 riscrivendo lo statuto vecchio di 33 anni. Un?authority molto efficiente, molto autorevole e molto potente, con uffici in tre città e uno staff di 550 persone, nel cui Registro sono iscritte 180 mila organizzazioni. Professor Fries, qual è lo scopo principale, la mission dell?authority inglese? La ragione dell?esistenza della Commissione è far sì che la gente mantenga la fiducia nell?integrità delle charities. Nel sistema inglese si chiamano charities tutti quegli organismi formati da privati cittadini che volontariamente servono la comunità, perseguendo scopi di servizio pubblico e non fini personali. Per questo le charities vivono della fiducia del pubblico, cui fanno appello per ricevere donazioni. Noi rendiamo possibile questa fiducia garantendo le organizzazioni che accreditiamo, riconoscendo loro i requisiti legali per essere charity e iscrivendole nel pubblico registro delle charities che la Commissione gestisce dal 1960. Quali caratteristiche deve avere una charity per essere iscritta al Registro? La registrazione per il nostro sistema non è un puro atto formale, ma una vera e propria presa di responsabilità. Iscriversi non è obbligatorio. La legge anglosassone è da sempre molto attenta alla libertà individuale, quindi è ovvio che chiunque ha il diritto di fondare un?associazione di volontariato e svolgere la propria attività come crede, nel rispetto della legge. La registrazione è un impegno supplementare che un?associazione si assume liberamente, conferma e certifica lo status di charity e garantisce la corrispondenza a determinati criteri di accreditamento. Quali? Abbiamo creato uno schema di accreditamento flessibile, che varia cioè a seconda delle dimensioni della charity. Non possiamo pensare che la Wellcome Foundation, la più grande fondazione del mondo con un patrimonio di 10 miliardi di sterline, abbia gli stessi obblighi di un?associazione di provincia con modeste risorse. Perciò alle circa 100 mila charities inglesi con un patrimonio fino a 10 mila sterline chiediamo un semplice report delle attività e la presentazione dei resoconti di spesa; alle charities ricche invece è richiesta una relazione dettagliata e il bilancio economico completo. Tutto bene, professore, ma se le informazioni fornite fossero imprecise o addirittura false? A chi spetta controllare? Sempre alla Commissione. I nostri tre uffici hanno una sezione ispettiva molto efficiente incaricata di effettuare periodici controlli. È una regola introdotta nel 1993: prima i controlli non erano sistematici, ma scattavano solo su segnalazione. Una pratica che lasciava spazio a troppe zone d?ombra. Invece ora interveniamo sia su segnalazione sia a caso, per essere sicuri che sia tutto a posto. Un compito da poliziotti. Non temete di essere accusati di eccessiva ingerenza? Sì, è un problema su cui il dibattito è molto acceso. La Commissione viene accusata di avere un doppio ruolo difficile da gestire: da un lato è l?amica delle associazioni perché le tutela e svolge per loro anche una serie di servizi di consulenza e di supporto; dall?altra è costretta a fare il gendarme. Ma vorrei precisare che la sezione ispettiva è l?extrema ratio, interviene cioè solo quando il problema evidenziato è irrisolvibile da parte degli altri uffici, oppure in caso di evidenti abusi quali comportamenti scorretti, cattiva gestione o quando il patrimonio della charity è in pericolo. In questi i casi i poteri sono ampi: la commissione può sospendere la dirigenza dell?associazione, congelare i conti bancari e nominare un commissario ad acta per l?ordinaria amministrazione. Si può arrivare, se necessario, anche a cambiare completamente il management. In Italia si discute molto dell?indipendenza dal potere politico dell?organismo di controllo sul Terzo settore. In Gran Bretagna come avete risolto la questione? La Charity Commission è un dipartimento non ministeriale i cui commissari sono nominati dal ministro dell?Interno; tecnicamente fa parte del governo, ma è indipendente dal processo politico. L?indipendenza è vitale per le charities, che se non fossero indipendenti non potrebbero portare avanti la loro azione di lobbying, ed è altrettanto vitale per noi che altrimenti non saremmo credibili. In questo ci aiuta la nostra tradizione, che ha sempre concepito la responsabilità dello Stato in modo residuale dato che le charities svolgevano gli stessi compiti del welfare prima che il welfare vedesse la luce. Le chiedo di fare uno sforzo di immaginazione. Secondo lei che rischi correrebbe il Terzo settore senza la Commissione? Le charities, lo ripeto, hanno bisogno della fiducia e del sostegno popolare come noi abbiamo bisogno dell?aria che respiriamo. Dal sostegno della gente per loro dipende non solo l?esistenza, ma anche il godimento dei benefici fiscali. Il rischio del non avere una commissione è che la gente perda fiducia nelle charities, un fenomeno che purtroppo capita facilmente perché molti sospettano a priori dell?efficacia delle organizzazioni benefiche, vogliono sapere se usano i soldi per gli scopi che dichiarano, se non sprecano, se sono oneste. Quindi la Commissione in effetti rappresenta un vantaggio prima di tutto per il Terzo settore. E allora perché qui in Italia fa tanta fatica a nascere? Essere messi sotto la lente di ingrandimento può non far piacere a qualcuno. Personalmente ho scoperto una certa resistenza da parte delle fondazioni, specialmente bancarie, che proteggono il loro settore finanziario e per questo sono riluttanti alle richieste di trasparenza. Forse non capiscono bene i metodi di monitoraggio: la cosiddetta accountability non è un controllo poliziesco, è piuttosto il rispetto di alcuni criteri. Ma in Italia avrete tanto tempo per accorgervene. OSSERVATORIO FISCO E NON PROFIT: il rapporto Si svolgerà il 30 novembre a Milano, presso la Fondazione Ambrosianeum (via delle Ore 3) il convegno conclusivo dell?Osservatorio Fisco e Nonprofit promosso da Vita in collaborazione con le decine di associazioni che formano il suo Comitato editoriale, e dal Forum permanente del Terzo settore. Il nostro è stato un?osservatorio tecnico e non politico, che ha avuto lo scopo di dare un punto di riferimento indipendente e autorevole, capace di raccogliere e catalogare l?enorme mole di quesiti e dubbi fiscali che da troppo tempo complica e deprime la vita di decine di migliaia di enti non profit nel nostro Paese. In poco più di sei mesi ci sono arrivati 204 quesiti fiscali, ed è significativo che ad inviarceli siano stati per quasi il 54% proprio i soggetti deputati a chiarire dubbi per la propria professionalità (commercialisti e fiscalisti) o per funzione pubblica (Centri di servizio al volontariato). E in molti casi si tratta di dubbi cui non si può dare risposta univoca, perché la 460, cioè l?unico parametro di riferimento in merito, non lo consente. Al convegno si tenterà qualche risposta. Proprio in quella giornata infatti verrà presentata la relazione conclusiva del lavoro dell?Osservatorio redatta da esperti rappresentanti del mondo accademico e tributario (relazione che verrà anche veicolata con i numeri di ?Vita? in abbonamento) in cui si farà il punto sulle questioni più controverse. A discutere delle conclusioni e a individuare ulteriori percorsi ci saranno, tra gli altri, Salvatore Biasco, Giorgio Benvenuto, Vasco Giannotti, Vincenzo Busa, Giorgio Fiorentini, Nuccio Iovene, Salvatore Pettinato, Davide Maggi, Ilaria Borletti, Adriano Propersi, Riccardo Bonacina. Informazioni al numero 02.5796961.


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