Scuola
Ora di relazioni, non lasciamola solo agli psicologi
Per educare i ragazzi alle relazioni non bastano gli insegnanti (poco formati) e nemmeno gli psicologi: serve coinvolgere tanti profili professionali, che conoscano il tema e come parlarne ai ragazzi. Smettendo di pensare che si possa prescindere dall'affrontare il rispetto nella sessualità. Intervista a Marina Calloni (Università Bicocca)
Educare alle relazioni sì, ma dopo la scuola. La riposta a tutta l’urgenza che abbiamo avvertito in questi giorni di un’educazione al rispetto, alle emozioni, alle relazioni è un modulo extracurricolare per le sole scuole che vorranno farlo, nelle sole classi dove ci sarà un docente disponibile a formarsi, per i soli alunni i cui genitori daranno il consenso. Un po’ poco per ambire ad essere la risposta sistemica di un Paese a un’emergenza. L’atteso piano “Educare alle relazioni” pare dunque questo, un modulo extracurricolare di 30 ore per le scuole secondarie di II grado, infiocchettato dalla presenza nel cerchio di qualche influencer che vorrà aderire e nobilitato dal protocollo tra ministero dell’istruzione e del merito e Ordine degli psicologi, che formerà i docenti referenti e i docenti moderatori: se tutto va bene, ne parliamo l’anno prossimo. Stanziati 15 milioni di euro dei fondi Pon.
È davvero questo quello di cui abbiamo bisogno? Lo abbiamo chiesto a Marina Calloni, ordinaria di filosofia politica e sociale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, direttrice del Centro di Ricerca Dipartimentale ADV-Against Domestic Violence e dell’Academic network UNIRE (la rete degli atenei italiani interessati al contrasto e alla prevenzione della violenza contro le donne), grande esperta non solo di violenza di genere ma anche di formazione per parlarne e per prevenirla: da anni infatti in Bicocca ha ideato un corso per formare le operatrici/gli operatori sociali per il contrasto alla violenza di genere.
Ancora due giorni fa la professoressa era in audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere e oggi, 24 novembre, interverrà al convegno “Conoscere, educare, prevenire. Così si combatte la violenza. Per una rivoluzione culturale” con cui l’università Bicocca ricorderà Sofia Castelli, la sua studentessa uccisa a luglio dall’ex fidanzato.
Professoressa, rispetto a quello che il ministro Valditara ha anticipato del piano “Educare alle relazioni”, la prima valutazione qual è?
Dovrei poter leggere nel dettaglio il piano proposta del Ministro per poter dare un giudizio più circostanziato. Il tema dell’educazione alle relazioni in realtà è già previsto dal Piano nazionale per l’educazione al rispetto, come espresso nelle Linee guida nazionali per l’attuazione del comma 16 della legge 107 del 2015 per la promozione dell’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere. Era l’ottobre 2017, la ministra all’epoca era Valeria Fedeli. Quelle linee guida, messe a punto da un gruppo di esperti, erano molto chiare. Il punto dirimente è ora questo: capire cosa si intende quando si dice “educare alle relazioni”. Chi lo fa, con quali competenze e contenuti.
Che dire del fatto che siano ore extracurricolari?
Significa che probabilmente frequenteranno questi corsi le studentesse e gli studenti già sensibilizzati, per loro impegno o per interessamento familiare. Vista la volontarietà, ci potrebbe essere il pericolo che questi corsi possano essere frequentati perlopiù da ragazze, già sensibilizzate sul tema, mentre potrebbero essere disertati da studenti maschi, pensando che si tratti di “cose da donne”, mentre è fondamentale che si possano rendere consapevoli del necessario contrasto contro ogni forma di sessismo, misoginia, discriminazione, così da opporsi ad atteggiamenti di possesso e controllo in relazioni che possono diventare tossiche anche in giovane età.
Con la volontarietà, probabilmente frequenteranno questi corsi le studentesse e gli studenti già sensibilizzati, per il loro impegno o per interessamento familiare. Potrebbero essere disertati dagli studenti maschi
Marina Calloni
La scuola sui social ha un po’ “fatto muro”, dicendo che l’ennesima “educazione” non serve a nulla o che l’avrebbero fatta solo a patto che ai corsi ci andassero anche i genitori: voci singole, certo, ma espressione certamente di una notevole stanchezza degli insegnanti che si sentono chiamati a dover affrontare e farsi carico – spesso senza adeguata formazione ma forse anche senza che quello sia il loro mandato professionale – di tutti i problemi della società.
Gli insegnanti non fanno formazione su questi temi: non la fanno né prima di entrare nella scuola né in seguito, in quanto diversamente da moltissime altre professioni non hanno una formazione obbligatoria, che invece servirebbe per comprendere meglio il fenomeno. Nel report redatto dal gruppo di esperte “Grevio” per il Consiglio d’Europa (promotore della Convenzione di Istanbul sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), viene chiaramente indicato l’obbligo di formare gli insegnanti su questi temi, oltre che il personale qualificato. Quindi bisognerebbe prevedere dei corsi di formazione per gli insegnanti in servizio ma anche per esempio dei CFU obbligatori anche prima di intraprendere la carriera di insegnante. Sono fondamentali corsi di aggiornamento intra- e interprofessionali. Ad esempio, quando abbiamo organizzato il progetto Sfera-Sviluppo della Formazione delle Reti Antiviolenza, grazie al contributo della Regione Lombardia con fondi Stato-Regione, siamo riuscite a svolgere 227 corsi di formazione per polizia di Stato, arma dei Carabinieri, polizia locale, centri anti-violenza, operatrici e operatori del sistema socio-sanitario, psicologi, assistenti sociali, consulenti tecnici di ufficio e consulenti tecnici di parte, giornalisti/e, insegnanti e dirigenti scolastici. Siamo poi riuscite a farli dialogare tra di loro. Fra tutti questi professionisti, gli insegnanti erano gli unici a non avere l’obbligo di formazione continua. Viceversa, abbiamo svolto un lavoro molto interessante con le scuole di Como, per creare una rete di scuole contro la violenza, formando studenti e insegnanti con un metodo comprensivo e multidisciplinare, ormai sperimentato da tempo.
Chi può fare efficacemente educazione su questi temi? E come?
In realtà, questi interventi, se fatti senza il supporto di professionisti competenti sul tema rischiano di arrecare danni. Cosa vai a dire ai ragazzi? Che dovete essere bravi? Che non dovete guardare i video porno? Che non devono essere violenti? Non possono farlo solo gli insegnanti, ma operatori provenienti da diverse discipline e anche con esperienze “sul campo” in centri anti-violenza, case famiglia, istituti penali per minorenni. Pratiche concrete.
Questi interventi, se fatti senza il supporto di professionisti competenti sul tema, rischiano di arrecare danni
Marina Calloni
Gli insegnanti saranno formati dall’ordine degli psicologi…
Non è sufficiente, perché non è un problema solo psicologico, ovvero clinico. Il fatto che si pensi di poter risolvere il problema ricorrendo solo all’approccio psicologico, in realtà è ciò che più mi preoccupa. C’è necessità di una formazione multi- e interdisciplinare, evitando semplici lezioni ex-catedra, bensì favorendo laboratori, dialogo: serve un lavoro attivo da parte degli studenti, a partire dalle loro storie, che spesso sono ormai raccontate solo sui social-media, per cui diventano quasi sconosciuti a genitori e insegnanti. E poi per educare alla affettività e alla sessualità occorre tenere in considerazione il grado di sviluppo fisico, cognitivo, emotivo pressoché di ogni singolo studente. Il problema è che le persone esperte sono ancora poche. Perché ciò avvenga anche noi docenti universitarie dobbiamo impegnarci ancor di più.
In tanti hanno già “previsto” che oggi tutti vogliono l’educazione alle emozioni, all’affettività, alle relazioni… ma appena si arriverà a parlare di educazione sessuale ci saranno ancora le barricate.
Questo da noi resta un tabù, ma effettivamente non si può parlare di educazione al rispetto e di educazione all’affettività senza parlare del rispetto nella sessualità. I nostri ragazzi – lo sappiamo – hanno vissuto durante la pandemia il dramma della solitudine, senza relazioni in presenza e questo ha avuto conseguenze disastrose. Dobbiamo insegnare a riprendere relazioni sessuali non mediate dai social media o da YouPorn, pensando che quello sia il “modello” dei rapporti, producendo devastanti forme di cyberbullismo e violenza digitale che hanno portato minorenni da una parte al suicidio, mentre dall’altra parte a perpetrare stupri di gruppo.
FOTO DI © DAIANO CRISTINI/SINTESI
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