Formazione

Ora c’è la prova: gli economisti sono egoisti

Uno studio americano dimostra scientificamente che chi studia economia pensa solo a se stesso. Fin da piccolo...

di Gabriella Meroni

Il commento seguente è apparso sul New York Times di sabato 16 dicembre

The Dismal Education (La cattiva educazione)

DiYoram Bauman*

Gli stereotipi sugli economisti come me sono noti: siamo esseri egoisti, non ci occupiamo delle vicende che riguardano i nostri simili perché i nostri simili non ci interessano; non vendiamo i nostri figli solo perché pensiamo che il loro valore potrebbe aumentare con il tempo.

Ma gli stereotipi sono veri? E se sì, il nostro problema è di natura o di educazione? Voglio dire: sono gli egoisti che hanno le maggiori probabilità di diventare economisti, o c’è qualcosa nel fatto di essere economisti che ci rende egoisti? Studi accademici dimostrano che negli stereotipi c’è molto di vero. Molte ricerche hanno analizzato il comportamento degli economisti verso i cosiddetti «beni comuni», scoprendo che si può beneficiare dei beni comuni anche se non vi si contribuisce in alcun modo. Si può guardare la televisione pubblica senza pagare il canone, si può respirare aria buona anche guidando un’auto che inquina. Ma i beni comuni fanno sorgre la domanda: comportarsi egoisticamente può avere un senso per il singolo individuo («perché dovrei sacrificarmi se posso evitarlo?»), ma se sempre più individui si comportano da egoisti il vantaggio svanisce e tutti ci perdono.

I beni comuni contrastano con la teoria della «mano invisibile» di Adam Smith, secondo la quale i comportamenti egoistici dei singoli si traducono in un bene per la società. Ci sono situazioni – come la questione del cambiamento climatico, che arrovella i singoli e le nazioni – che ci mettono in difficoltà, ma gli economisti e i loro allievi sembrano disinteressarsene e scegliere un comportamento egoista e anti-sociale invece che pro-sociale. Una conferma di ciò è arrivata dalla ricerca che ho svolto con la collega Elaina Rose e pubblicata lo scorso agosto sul Journal of Economic Behavior and Organization, nella quale abbiamo analizzato una situazione reale che coinvolgeva beni comuni così come è stata affrontata dagli studenti dell’università di Washington. Durante il periodo di svolgimento della ricerca (dal 1999 al 2002), quando gli studenti si iscrivevano online ai corsi quadrimestrali, veniva loro chiesto se intendevano donare 3 dollari al WashPIRG (un gruppo politico di sinistra) e all’Affordable Tuition Now (un’associazione che si batteva per ottenere «rette eque, aiuti finanziari e fondi sostenibili»). I lettori potrebbero dubitare dell’effettiva utilità comune di questi gruppi, ma il punto non è questo. A prescindere dal reale valore sociale delle due associazioni, è chiaro che un individuo interessato solo a sé stesso avrebbe scelto di non donare nulla, magari pensando che una singola donazione di soli 3 dollari non potesse fare la differenza. Ebbene, i dati raccolti mostrarono che ogni gruppo riceveva donazioni dal 10% degli studenti ogni quadrimestre.

Anche se gli 8.743 donatori sono rimasti anonimi, abbiamo analizzato i loro profili e visto a quali facoltà erano iscritti, e a quale delle due associazioni avevano scelto di donare. I risultati, in linea con altri studi precedenti, hanno mostrato che lo stereotipo dell’economista egoista è vero. Circa il 5% degli studenti di economia aveva donato al gruppo di sinistra, contro l’8% degli iscritti alle facoltà umanistiche e scientifiche. Quanto all’altra associazione, la percentuale è stata del 10% contro il 15%. Non solo. Raccogliendo ulteriori dati, abbiamo avuto la prova che un simile comportamento era dovuto alla natura, e non all’educazione, di coloro che in seguito si sono laureati in economia: aver frequentato corsi di economia, infatti, non ha influenzato la propensione a donare di coloro che poi si sono laureati in economia, mentre frequentare gli stessi corsi ha diminuito la propensione a donare degli studenti che si laureavano in materie diverse. In pratica, gli studenti che si sarebbero poi laureati in materie diverse dall’economia subivano una sorta di «perdita di innocenza» inserendo nel loro piano di studi corsi di economia, probabilmente perché venivano a contatto con determinate idee (come la teoria della mano invisibile) o determinate persone (i docenti di materie economiche). Di contro, gli studenti laureati in economia non subivano alcuna perdita di innocenza, forse perché l’innocenza l’avevano già persa alle scuole superiori (come sostengono altre ricerche che hanno analizzato il contatto dei liceali con le teorie economiche) o forse perché erano «nati così».

La conclusione di tutto ciò? Secondo me è la seguente: gli studi economici dovrebbero essere più equilibrati. Presentare, accanto ai vantaggi, anche i difetti del libero mercato è il cuore di ogni buon insegnamento economico. Perché gli studenti – soprattutto quelli che non diventeranno mai economisti – meritano di conoscere entrambe le facce della medaglia.

* Economista, commediografo e performer, docente all’Univerità di Washington, è autore de “The Cartoon Introduction to Economics”. Il suo profilo è qui

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