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ONG e comunicazione civile: per combattere l’odio e l’indifferenza ricostruiamo reti di fiducia

Costruire reti di fiducia, tracciare percorsi di speranza, tessere relazioni concrete anche tramite il web. Perché lavorare sul capitale sociale è la sfida della comunicazione civile. Di questo si è parlato nell'incontro di due giorni "Le cose che non ti ho detto" tenutosi all'Abbazia di Mirasole a Milano alla presenza delle principali ONG italiane

di Redazione

«Senza progresso civile non c’è politico che può risolvere da solo i problemi della nostra società». Così Leonardo Becchetti ha commentato il percorso di comunicazione civile che ha preso inizio venerdì, durante la due giorni di incontro e confronto fra le principali ONG italiane sul tema dell'agire umanitario.

Un confronto organizzato da Vita, in collaborazione con il Politecnico di Milano e PlanetB, che si è tenuto nella splendida cornice dell'Abbazia di Mirasole, a Opera, appena fuori Milano. Tanto lavoro, seminari. Ma soprattutto: uno spazio finalmente aperto al pensiero e al confronto a cui hanno partecipato i comunicatori e i responsabili delle principali Ong.

Da quando, nel 2016, iniziarono a circolare false informazioni su un presunto dossier di Frontex che avrebbe dovuto attestare una complicità fra scafisti e navi umanitarie, le ONG sono diventate un target quasi quotidiano da parte della politica. Con una escalation che continua anche in queste ore.


Salvare vite umane, spiega Didier Fassin, medico e antropologo, docente a Princeton, autore di un libro chiave (Ragione umanitaria, trad. e cura di L. Alunni, DeriveApprodi, 2018), è diventato illegittimo.

Che cosa significa? Significa che «questi due primi decenni del XXI secolo segnano il passaggio a una ragione sicuritaria: quella del controllo dei flussi, della brutalità contro gli esiliati e persino della repressione degli attori umanitari. Le organizzazioni che aiutano gli esuli nel Mediterraneo sono stigmatizzate, i cittadini che ospitano stranieri in difficoltà sono puniti. Salvare vite umane diventa illegittimo e riprovevole».

Oggi più che mai, in un contesto dove dominano la retorica della sicurezza e dei porti chiusi, gli attori umanitari sono sotto attacco. Ma come cogliere la sfida? Forse partendo proprio dalla vulnerabilità intrinseca a ogni azione umanitaria. D'altronde, proprio questa vulnerabilità può essere vista come la precondizione per ricostruire quella rete di fiducia tra soggetti che è alla base di ogni incontro etico e di ogni azione umanitaria.

Da questa vulnerabilità intrinseca del sociale nasce la necessità di raccontarsi e raccontare. Attraverso un'altra narrazione, che non sia l'oramai logorato e invecchiato "storytelling del bene".

Ma cosa dire del mondo? Cosa, di sé? Scriveva Hannah Arendt, in una lettera a Mary McCarth: «Dovresti scrivere su ciò che porta le persone a volere una storia. Il racconto di storie. Vita ordinaria di gente ordinaria, come in Simenon. Non si può dire come sia la vita, come il caso o il fato abbiano a che fare con la gente, se non raccontandone la storia. In generale, solo questo si può dire: sì, è proprio così che è andata … Senza eventi, sembriamo incapaci di vivere; la vita diventa un flusso indifferente e siamo a stento capaci di distinguere un giorno dall’altro. È la vita stessa ad essere piena di storie». Non facciamo scomparire le storie, raccontiamole. Altrimenti saranno gli altri a raccontarle per noi, riempiendole d'odio e di rancore. Non ce lo possiamo permettere.

Il prossimo appuntamento è per l'1-2 ottobre (per informazioni scrivere a vita@vita.it)

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