Per un pò è divertente. Le proposte di accorpamento delle province italiane consentono ai media di rispolverare vecchie rivalità tra territori che pare saranno costretti a convivere in una nuova entità. E così articoli, servizi, interviste a esponenti più o meno di spicco dell’una e dell’altra provincia. Livornesi coi pisani, padovani coi rovigotti, astigiani con gli alessandrini e via di questo passo. Per non parlare del fiorire di soluzioni alternative rispetto a quelle paventate dal governo nazionale. Ecco quindi province smembrate o addirittura che cambiano regione dando vita a nuovi contesti. Sembra di vedere – in piccolo, molto in piccolo e per fortuna non con gli stessi accenti drammatici – quel che è successo (e in parte continua a succedere) dopo la caduta dell’impero sovietico.
Alla lunga però ci si stufa. Anche perché trattare in questo modo la riorganizzazione provinciale significa banalizzarla, perdendo così l’ennesima possibilità di ridisegnare il territorio non sulla base di tradizioni più folcloristiche che storico-culturali e neanche per rispondere esclusivamente al pur necessario ridimensionamento delle spesa pubblica. Ripensare le province può rappresentare un’occasione importante per riconoscere e localizzare processi e attori socio economici che oggi e nel prossimo futuro guideranno lo sviluppo del Paese.
Qualche giorno fa un commento di Dario Di Vico sul Corriere della Sera sosteneva in modo provocatorio che saranno Gucci e Luis Vuitton i nuovi prefetti, perché sulle macerie lasciate dalle istituzioni pubbliche queste multinazionali si prenderanno sempre più cura dei territori dove risiedono e da dove ricavano importanti risorse che fanno la qualità distintiva dei loro prodotti. Messa in questo modo la questione è decisamente più interessante, soprattutto se la si allarga anche alle organizzazioni della società civile. Queste ultime infatti vengono ormai da tempo riconosciute come fattore di competitività e attrattività dei territori, tanto quanto (e forse più) la classica dotazione infrastrutturale, economica, ecc.
Il non profit dovrebbe essere uno dei “flussi reali” da seguire per riorganizzare le province. Una sfida davvero interessante anche per la rappresentanza del settore che sarebbe chiamata non ad adagiarsi su confini amministrativi preesistenti ma a formulare, assieme ad altri, una nuova visione del territorio come risultato dell’interazione tra attori diversi. Un pò come è successo qualche tempo fa grazie all’applicazione della legge 328 sui servizi sociali che ha costretto a dislocare il welfare su base locale, riconvertendo allo scopo altre entità territoriali (i distretti socio sanitari, le comunità montane, ecc.) per farne scaturire il famoso “sistema integrato” di servizi sociali. A queste si potrebbero aggiungere altre innovazioni generate dal settore non profit in prima persona, come le società geocomunitarie del Gruppo cooperativo Cgm.
Queste esperienze potrebbe essere riproposta oggi in ambiti più vasti e in un contesto decisamente più critico, dove è necessario l’apporto di tutti. Sarebbe infatti un errore madornale se la “questione province” si riducesse a una partita giocata esclusivamente all’interno della Pubblica Amministrazione, senza coinvolgere quelli che, proprio come gli enti provinciali, si chiamano “corpi intermedi” dell’economia e della socialità. Ne risulterebbe un’operazione burocratica ad elevato rischio di inversione dei fini: ovvero che gli enti provinciali morti risorgessero, come gli zombie, sotto nuove spoglie, riproponendo, in modo ancor più evidente, i problemi che si intendevano risolvere con la loro abolizione.
Vedremo come andrà a finire. E per per gettare benzina sul fuoco un’ulteriore proposta: fare le province come agenzie di rete. Rifondarle come enti a governance partecipata da enti locali, imprese, non profit il cui raggio d’azione sia delimitato non da confini geografici, ma dalla possibilità di stipulare reti in forma contrattuale con altri enti pubblici e privati a qualsiasi latitudine e per qualsiasi tema che venga identificato come di interesse generale: dall’internazionalizzazione delle economie locali al welfare, dai flussi turistici a quelli del mercato del lavoro. E sta a vedere che così rigenerate le nuove province potrebbero essere digerite anche da pisani e livornesi.
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