Sostenibilità

Olio di palma e carta: quei business che le rubano il futuro

di Redazione

Bracconaggio, commercio illegale.
Ma anche interessi economici enormidi Massimiliano Rocco
Il destino della tigre è sicuramente incerto, i dati disponibili mostrano una vera tragedia in corso. Eppure invertire la tendenza si può e si deve, basta volerlo concretamente e non solo sulla carta. Tra le principali minacce da contrastare vi è la sempre più consistente mancanza di prede, contese con l’uomo che le sta decimando in tutta l’Asia, e la persecuzione diretta per il commercio delle ossa e dei trofei. Non vi è giorno che non si venga a sapere di un sequestro in India, Nepal, Thailandia o Laos; l’ultimo in ordine di tempo ha portato alla confisca di oltre 120 chilogrammi di ossa di tigre (4/5 esemplari adulti). Tutti i sequestri avvengono lungo una direttrice che porta dalle ultime foreste dell’Asia verso la Cina, la centrale della trasformazione di questi resti per farne prodotti per la farmacopea. Una pratica millenaria lontana dall’essere sconfitta, giudicata oramai retaggio del passato anche dalla moderna farmacopea orientale, ma che resiste a causa di tradizioni culturali ben radicate. D’altra parte il commercio illegale di tigre, già vietato dalla Convenzione Cites, vale milioni di dollari: una zuppa di pene di tigre viene servita nei ristoranti asiatici a oltre 320 dollari, gli occhi ne valgono 170, 1 chilo di omero triturato 3.200, mentre le altre ossa vengono valutate alcune centinaia di dollari al chilo. La pelliccia infine può valere dai 2.500 ai 25mila dollari. A gravare sul destino della tigre vi sono poi la distruzione e frammentazione del suo habitat, quelle foreste che un tempo andavano dal Caspio all’isola di Bali e che oggi sono sempre più accerchiate dall’agricoltura e dall’industria estrattiva. Olio di palma, carta, legname di latifoglie tropicali e caffè: prodotti sempre più richiesti dai nostri mercati, che giorno dopo giorno sottraggono spazi vitali alla tigre. Sumatra è il triste esempio di come le nostre scelte possano mettere in pericolo la sopravvivenza di una specie: foreste secolari che in un batter di ciglia spariscono sotto l’avanzata dei bulldozer per fare posto a piantagioni di acacia per la nostra carta o per l’olio di palma. Sempre più presente nei banconi dei nostri supermercati perché favorito dai bassi costi, l’olio di palma viene anche usato come combustibile per la produzione di energia elettrica, energia dichiarata “verde” forse perché manda in fumo milioni di ettari di foreste verdi smeraldo.
A novembre, nel prossimo summit a San Pietroburgo, in Russia, la speranza è che anche buona parte di quel mondo dell’economia che muove le fila dei mercati orientali si metta una mano sulla coscienza e capisca che investire sulla tigre significa investire sul loro e sul nostro futuro.


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