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Olio di palma, da Nigeria, Costa d’Avorio e Ghana contro gruppo belga

La protesta di varie associazioni di agricoltore e di tutela ambientale di tre paesi africani dove la Siat ha ottenuto grandi concessioni per piantagioni di caucciù e palma da olio arriva a Bruxelles. L'accusa: espropri illegali e deforestazione. Dopo aver consegnato una lettera al ceo e nel frattempo si chiedono alla Comunità europea di agire. Il sostengo delle ong

di Irene Giuntella

“Il gruppo belga Siat che produce olio di palma in Africa viola i diritti umani e ci ha espropriato delle nostre terre”. E’ la denuncia delle comunità africane del Ghana, Costa d’Avorio e Nigeria contro la società belga di olio di palma Siat. La società belga è una delle cinque grandi aziende che controllano il 75% delle piantagioni di olio di palma in Africa. L’azienda vende i suoi prodotti a grandi multinazionali come Unilever e Nestlé e gomme a aziende per pneumatici come Michelin e Goodyear.

Nelle scorse settimane le comunità colpite sono scese in piazza a Bruxelles e hanno consegnato una lettera all'amministratore delegato della Siat. "Riteniamo che qualsiasi discussione tra il Gruppo Siat, le popolazioni colpite dalle sue attività e i rappresentanti dei loro interessi, debba avvenire direttamente sul terreno. Se tale comunicazione ha luogo, deve essere trasparente, equa, inclusiva e condotta in buona fede", scrivono le comunità. I rappresentanti dei tre Paesi africani chiedono all’azienda che “qualsiasi dialogo si svolga nelle regioni interessate e in modo inclusivo, equo e trasparente”. L’appello è chiaro: “La partecipazione attiva delle comunità locali è essenziale per lo sviluppo di un processo di risarcimento equo”.

Inoltre, “la Siat e le sue aziende sussidiarie compiono deforestazione e si appropriano delle terre e piantagioni per espandere i propri impianti, violando i diritti delle comunità locali e distruggendo l’ecosistema per sfruttare le terre per le loro attività e lo sfruttamento delle piantagioni per produrre olio di palma. Ma denunciamo anche la violazione dei diritti dei lavoratori. Tutto questo è inaccettabile e la società deve cessare queste azioni”, ha detto a VITA, Adjawlo Wisdom Koffi, del gruppo dei giovani volontari per l’ambiente del Ghana. La delegazione delle comunità africane chiede anche a Bruxelles di agire urgentemente per arginare i comportamenti e le violazioni delle multinazionali. “La situazione deve essere affrontata a livello europeo”, ha aggiunto. L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao) stima che tra il 1990 e il 2020 siano andati persi 420 milioni di ettari di foreste, che equivalgono ad un territorio più grande dell'Ue, a causa della deforestazione. Si stima che il consumo dell'Ue rappresenti circa il 10% della deforestazione globale.

“La Siat viola il diritto di accesso alla terra e la sicurezza alimentare della popolazione che dipende da questa terra per la sopravvivenza. La società distrugge le loro terre senza compensazione, pur di costruire si sono resi responsabili di violenze e repressione contro la popolazione che si era opposta all’uso prodotti chimici”, denuncia Giuseppe Cioffo, esperto per le politiche normative e estrattive delle aziende presso l’ong Cidse.

Tra l’altro il ricorso alla giustizia per le comunità locali resta insostenibile: “In Costa D’Avorio le comunità di contadini sono ricorse alla giustizia contro la società belga ma il tribunale ha dato ragione all’azienda. Questo accade anche perché la legge ivoriana non è chiara sugli oneri delle prove e spesso i contadini si ritrovano a dover provare che l’inquinamento delle terre è dovuto ai pesticidi e attività dell’azienda. Questo tipo di prove hanno quindi dei costi troppo elevati da sostenere per i contadini. Piuttosto la legge deve chiedere alle aziende di dimostrare che non sono responsabili dell’inquinamento. Vogliamo l’inversione dell’onere delle prove e sostegno all’accesso alla giustizia per le comunità”, aggiunge Cioffo. Ma la Siat non è l’unica società ad abusare delle terre africane, delle materie prime, dell’ambiente, dei lavoratori ed abitanti. “Diverse società europee fanno advocacy in Africa. Sono direttamente connesse a multinazionali europee che comprano i loro prodotti, continuando così ad incoraggiare la violazione dei diritti e la distruzione ambientale. Siat non è l’unica azienda ad avere questi comportamenti”, afferma Rita Uwaka di Friends of the Earth Africa-Nigeria. “Ad esempio, tra le tante, ci sono aziende come Uniliver, Soclean e Pz Wilmar in Nigeria. Diverse società vengono anche finanziate dall’Ue con fondi per lo sviluppo. Soclean, che ha sede in Europa in Lussemburgo, è tra le aziende che registra più violazioni dei diritti umani tra le attività e i prodotti commerciali di agricoltura in tutto il mondo e in Europa.

“In Costa D’Avorio è stata distrutta la foresta sacra della popolazione, sono stati distrutti anche gli accessi alla foresta per la popolazione”, ribadisce Uwaka. Molte società europee per salvare la faccia e continuare a pubblicizzarsi agli occhi delle autorità e del pubblico come realtà sostenibili scelgono dei nomi locali per le aziende sussidiarie africane in modo da non essere facilmente riconoscibili e fanno attività di greenwashing, sostiene ancora Uwaka.

“Alcune società prendono fondi europei per lo sviluppo sostenendo che con le loro piantagioni di olio di palma sosterranno la popolazione, ma in realtà la popolazione così non ha accesso alla terra e la riducono doppiamente in povertà. Fanno semplicemente greenwashing”, ribadisce Uwaka. L’esproprio delle terre causa anche gravi danni alla sopravvivenza e all’educazione dei bambini locali: “Stiamo soffrendo, senza terre non abbiamo soldi e non abbiamo da mangiare, le donne non possono nutrire i propri figli e non li possono mandare a scuola perché non hanno soldi. Non sappiamo cosa fare, serve un intervento per le donne e i bambini. L’Europa deve aiutarci con finanziamenti, prendere una posizione, vogliamo indietro le nostre terre”, racconta, tra le lacrime, Gladys Omoefoe Osaghae, rappresentante delle comunità contadine, membra dell’Associazione coltivatori di riso della Nigeria (Irfan).

In Costa D’Avorio negli anni i manifestanti contro la Siat, tra cui donne e capi villaggio, sono stati imprigionati. “ Nel 2015 una manifestazione pubblica contro la Siat è stata repressa violentemente. La comunità locale è palesemente contro l’azienda. Abbiamo organizzato un tour a Bruxelles per incontrare le autorità belghe e tedesche e la società civile per presentargli e denunciargli il nostro caso. L’obiettivo era mostrargli le violazioni dei diritti umani in Costa d'Avorio. Chiediamo che non ci siano passi indietro e che sia posto riparo a tutte le violazioni dei diritti umani. Chiediamo che il presidente della Costa d'Avorio consideri che la verità e le foto che dimostrano queste violazioni siano accessibile a tutti”, ha detto, sempre a VITA, Sinan Quattara Issifou, portavoce del re di Andoh in Costa D’Avorio.

“Nessuno lavora più per la Siat che prevedeva dei salari irrisori, senza terre, lavoro e denaro la miseria si sta aggravando”, aggiunge. Per questo, nell'ottobre del 2020, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di presentare una normativa per porre fine alla deforestazione a livello globale di cui è corresponsabile anche l'Unione Europea. La direttiva Ue presentata dalla Commissione renderebbe obbligatorio per le aziende verificare la sostenibilità e responsabilità (due diligence), ossia che i prodotti venduti nell'Ue non siano stati prodotti su terreni deforestati o degradati. Sulle azioni dell’Unione europea per affrontare la questione “l’Ue sta discutendo la direttiva sulla responsabilità delle imprese per la sostenibilità, ma sull’ambiente ci sono diversi punti deboli, soprattutto sull’impatto ambientale. L’aspetto positivo è che si sta discutendo degli impatti negativi delle aziende sull’ambiente e dell’accesso alla giustizia, ma restano forti limiti”, spiega Cioffo. Per ora la direttiva sembra basarsi sulla prevenzione del danno, ossia “le comunità dovrebbero dimostrare con delle prove che l’azienda sapeva di poter recare un danno e non l’ha evitato”, ha aggiunto. Però, la “la legge non fornisce abbastanza risalto all’azione legale collettiva”, prosegue.

Anche con questa direttiva le grandi multinazionali rischiano di farla franca rispetto alle proprie responsabilità. “La direttiva colpisce le aziende con sede in Europa ma poi ha dei limiti sulle relazioni con i fornitori indiretti. La normativa riconosce importanza all’appartenenza ad associazioni industriali che rilasciano certificazioni di sostenibilità alle imprese, senza controllare che si rispettino i requisiti. Ad esempio la Siat, fa parte della round table per l’olio di palma sostenibile e ha diverse certificazioni green”, conclude Cioffo.

Intanto, il 13 luglio, la Commissione per l'Ambiente del Parlamento europeo ha adottato la sua posizione sulla proposta della Commissione europea. In particolare, i deputati chiedono che le aziende verifichino che i prodotti siano realizzati nel rispetto dei diritti umani tutelati dal diritto internazionale e dei diritti delle popolazioni indigene, oltre che delle normative e degli standard pertinenti del Paese in cui i prodotti sono realizzati.

Ora si attende il voto del Parlamento europeo in plenaria a settembre, prima di iniziare le negoziazioni tra i Paesi Ue durante la presidenza di turno dell’Ue della Repubblica Ceca.

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