Formazione

Oggi il bambino nascerebbe ai piedi del muro

Una testimonianza da Betlemme: chi scrive lavora al Baby Hospital della città nativa di Gesù. Condivide i drammi di una popolazione che vive assediata, di Lucia Corradin

di Redazione

Com?è oggi la vita in Betlemme? Ce lo chiedono i nostri amici, le persone che ricordano con amore i bambini del nostro ospedale e che si sentono solidali con la sofferenza di questo popolo. Il Baby Hospital è un interessante punto di osservazione per capire la realtà di Betlemme; qui arrivano i bambini palestinesi bisognosi di cure, qui si protegge la loro fragile vita, qui le madri cercano aiuto e sostegno. La realtà che si trovano ad affrontare è spesso così dura ed ostile ?..

Il contatto diretto, quotidiano con le madri ci permette di conoscere i loro drammi enormi, il mondo senza respiro in cui i palestinesi sono costretti a vivere una vita da prigionieri, privati della normale libertà di movimento e dei fondamentali diritti di un essere umano.

Eppure, nonostante tutte le difficoltà, qui i bambini sembrano avere una gran voglia di venire al mondo, come Bashir, nato sulla porta del nostro ospedale, un parto così facile che, dice la mamma, «quasi non me ne sono accorta che stava venendo al mondo», ed ha voluto fermarsi al Baby Hospital, temendo di non poter raggiungere in tempo la clinica di maternità.

Ci sembra di capire profondamente questa popolazione, soprattutto quando anche noi sperimentiamo in parte le loro stesse restrizioni.

Una delle sensazioni peggiori che ci possano capitare quando usciamo di casa con destinazione Gerusalemme, è quella di trovare chiuso il portone del muro. Ci invade subito un senso di totale impotenza, di soffocamento, di ribellione e di oppressione, la sensazione di essere nelle mani di un altro che ti toglie la libertà e ti rende schiavo, che decide di tenerti in suo potere, a suo arbitrio.

Allora cominciamo ad innervosirci e a chiamare a squarciagola il soldato che dovrebbe essere di turno in alto nella torretta di controllo, per discutere la situazione e capire il motivo di tale chiusura; se non ci risponde nessuno cominciamo a bussare il portone grigio di ferro, sperando che i soldati ci sentano? ma il bussare delle nostre mani o i nostri ?misurati calci? al cancello chiuso risultano fin troppo ?vellutati? e non hanno successo.

Così qualche volta dobbiamo tornare a casa con la rabbia, perché i soldati non permettono di uscire neppure a noi. E allora ci ricordiamo delle parole di un soldato: «Se avete deciso di vivere a Betlemme, insieme ai terroristi, dovete accettare di essere trattate anche voi da terroristi»?

Il serpente grigio e Jamil

I lavori di costruzione del muro a Betlemme si avviano alla conclusione. Come un serpente grigio, il muro stringe la città in una morsa mortale; lo constatiamo ogni giorno, da cose molto concrete. Il piano di tale costruzione ha qualcosa di malvagio e di assolutamente inumano. Le sue anse si muovono fin all?interno dei centri abitati, si snodano tra le case stesse togliendo luce e respiro? apri la finestra e? ti trovi davanti il muro grigio? fino a sentire un tonfo al cuore. La costruzione del muro ha causato la perdita e la distruzione di molte proprietà degli abitanti di Betlemme. Tra le molte, dolorose storie con cui veniamo a contatto, ci colpisce quella di Jamil.

Conosciamo da tempo Jamil, un uomo mite e semplice, che trascorreva la gran parte della giornata nel suo cafè shop, un piccolo locale privo di molti comfort, ma tutto suo, in un edificio a fianco della tomba di Rachele, vicino al nostro ospedale, un luogo altamente strategico, al confine tra Israele e Palestina. In questi ultimi anni i suoi clienti erano diventati rari, ma il locale era ugualmente tanto importante per lui, e costituiva una specie di simbolo, un baluardo. Cominciò la costruzione del muro a Betlemme, e sempre più appariva chiaro quale sarebbe stato il suo percorso. I blocchi di cemento avevano già invaso la città, ma Jamil rimaneva impavido al suo posto di lavoro, fedelissimo e puntuale, anche senza clienti.

Le autorità israeliane volevano quella terra, ma Jamil resisteva, fino ad andare in tribunale. Gli offrirono denaro in abbondanza purché cedesse i suoi beni così preziosi. E poiché, vendendo la sua terra ad Israele, Jamil avrebbe rischiato pelle e onore di fronte alla Palestina, gli avrebbero anche assicurato vita tranquilla in un altro Paese. Jamil rifiutò ogni offerta, per amore della sua terra, per onore, per paura per la sua vita, per i suoi figli, convinto che l?onore di difendere la sua terra vale mille volte di più di una montagna di denaro.

Il muro raggiunse infine il cafè shop di Jamil e lo avvolsecon le sue anse grigie. Il piccolo regno di Jamil sparì ingoiato per sempre insieme al piccolo appezzamento di terra.

Ancora oggi, Jamil lascia la sua casa al mattino e raggiunge il muro. Se nessuno gli apre, se ne torna a casa. Jamil piange quando racconta la sua storia, il suo sguardo suscita tenerezza e ancora una volta non gli togliamo la speranza che, chi lo sa, un giorno la vita ritornerà felice e semplice come un tempo.

La testimonianza integrale di suor Lucia sarà pubblicata dalle Edizioni Terrasanta, il centro editoriale della Custodia di Terra Santa : www.terrasanta.net

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