Non profit

Occuparsi di fine vita nell’epoca dei sempre giovani

Francesca Floriani

di Marina Moioli

Non è facile comunicare sentimenti positivi e progetti di speranza parlando di temi come la sofferenza e il fine vita. Ma Francesca Floriani, presidente della fondazione creata più di 30 anni fa dal suocero Virgilio per alleviare le sofferenze dei malati terminali, miracolosamente ci riesce, spiegando con un sorriso il perché del suo impegno. «Per quel che mi riguarda», mette subito in chiaro, «mi considero e sono considerata come l’erede morale del fondatore; continuo la sua opera con le sue stesse motivazioni. È stato un grande scienziato, diventato imprenditore suo malgrado, che a un certo punto si è sentito di dover “restituire” i privilegi che la vita gli aveva dato. Era un uomo che rappresentava quella borghesia illuminata milanese che aveva la cultura della solidarietà e della partecipazione. Io ho il dovere di continuare su questa strada, perché la condivido e mi sento a modo mio altrettanto privilegiata. E anche perché credo che ognuno debba fare la sua parte: non sono santa Maria Goretti, ma è evidente che in un mondo migliore staremmo meglio tutti. Per me la gratuità va intesa come reciprocità: tutti hanno bisogno di tutti, questo è il senso del volontariato. E se oggi sono io che posso dare, domani potrei essere io quella che ha bisogno di ricevere. Faccio quello che faccio perché ho la fortuna di poterlo fare».
La storia della fondazione guidata da Francesca Floriani è una piccola grande storia, molto milanese, fatta di idee, valori e iniziative, che parte da un ambito socio-sanitario ma diventa subito paradigmatica di una storia molto più grande, in un ambito molto controverso e difficile come quello delle cure palliative italiane e della cultura che le sostiene.
Cosa si intende per cure palliative?
Palliativo non significa “inutile”. La sua definizione esatta deriva dalla parola latina “pallium”: mantello, protezione. Palliare infatti vuol dire prendersi cura, curare. Anche quando non si può più guarire. Anche quando il dolore diventa totale e piega ogni volontà, ogni speranza. Secondo la definizione del saggio medico ottocentesco Giuseppe Del Chiappa che parlava del «palliare ove il guarir non ha luogo». Le cure palliative, considerando la morte come naturale, non prolungano né abbreviano l’esistenza e affrontano tutti gli aspetti della sofferenza di un malato: fisici, psicologici, sociali e spirituali. Per garantire qualità e dignità alla vita fino all’ultimo istante. 35 anni fa, quando mio suocero ha dato vita alla fondazione, pensare di somministrare farmaci che alleviassero le pene dei malati era una bestemmia; era tabù, così come parlare di cancro.
Oggi abbiamo infranto il tabù?
Sì, ma da lì ad elaborarlo in un modo sano la strada da percorrere è ancora lunga. Anche chi ne ha più consapevolezza, poi tende a rimuovere. Se pensiamo che nella somministrazione di questi medicinali l’Italia è ancora il fanalino di coda dei Paesi sviluppati dell’Ocse, e che dopo di noi c’è solo la Grecia, si capisce che resta ancora molto da fare. E secondo uno studio della Economist Intelligence Unit, in tema di cure palliative il nostro Paese si piazza al ventiquattresimo posto su 40 Paesi, dimostrando tutta la sua arretratezza.
In cosa consiste il vostro intervento a fianco del malato terminale?
Cerchiamo di sopperire alle carenze delle strutture sanitarie, offrendo un’assistenza domiciliare gratuita agli ammalati dimessi in quanto inguaribili. Questo significa inviare presso le abitazioni dei malati personale esperto nel trattare il dolore e tutti gli altri sintomi. Vuol dire anche aiutare le famiglie a convivere con una situazione difficile, per consentire alla persona cara di terminare la propria vita dignitosamente, senza sofferenze, circondata dalle cose e dagli affetti che più ama. È un’assistenza multidisciplinare che gira attorno a un medico palliativista esperto nell’alleviare le sofferenze fisiche che derivano da una malattia inguaribile. Dell’équipe fanno parte un assistente sociale – se necessario per la famiglia -, un gruppo di infermieri e uno psicologo che segue anche i familiari nella fase dell’elaborazione del lutto.
Com’è la situazione oggi in Italia in questo campo?
Ogni anno sono circa 250mila i pazienti che hanno bisogno di cure palliative. E non parlo solo di persone colpite da un tumore. Ma rimane il retaggio legato a una cultura dominante del sempre vincente, che nega il limite, l’invecchiamento, che non ci ha educato ad avere strumenti capaci di farci convivere con le frustrazioni. Certo, so benissimo che non è facile parlare di morte in una società che nega la malattia e insegue l’eterna giovinezza, anche se abbiamo fatto grandi passi avanti. Oggi il compito è continuare la battaglia culturale, andare avanti con la ricerca e vigilare perché le risorse messe a disposizione dallo Stato siano spese nel modo giusto.
L’anno scorso è stato decisivo con l’approvazione della legge quadro. Una grande battaglia vinta. Ma a che punto siamo con l’attuazione?
Sì, è vero. La legge quadro per noi è stata un grande goal, il coronamento di un lungo lavoro, una conquista di civiltà. Ho lavorato con tre governi e una sfilza di ministri (prima Sirchia e Storace, poi Turco e Sacconi, adesso Fazio) con l’obiettivo di portare a casa la prima legge italiana che definisse come un diritto acquisito di ogni cittadino il poter ricorrere alle cure pallative. Non ci dobbiamo dimenticare che tutto passa attraverso la politica e che certe conquiste si attuano solo quando c’è la volontà politica di attuarle. Nel nostro caso è stata una delle poche leggi bipartisan, così condivisa e partecipata da tutti che mi auguro venga applicata. Certo competerà poi alle Regioni, con il Titolo V, rendere attuativi i principi che sono sulla carta. C’è di buono il fatto che la Regione Lombardia ha risposto per prima, velocemente e bene. Ora bisogna che tutte le altre passino dai principi all’attuazione.
Quale deve essere invece il ruolo delle associazioni di volontariato? Continuare a supplire alla mancanza dei Lea, i livelli essenziali di assistenza?
La società civile organizzata, il cosiddetto terzo settore, deve avere un ruolo proattivo: intercettare in anticipo i bisogni del cittadino e cercare di dare delle risposte prima delle istituzioni. Per quanto riguarda le cure palliative, adesso si tratta di vigilare per passare ai fatti, in un giusto equilibrio. Ma il problema sociale e politico che si pone in questo momento storico nel nostro Paese è capire che cos’è questa sussidiarietà orizzontale che vogliamo e di cui abbiamo bisogno. Se è una stampella di un sistema di welfare che zoppica, e che sarà destinato a zoppicare sempre di più, non è quello che intendo io. Se invece è un rapporto equilibrato in cui ognuno fa la sua parte fino in fondo senza sovrapporsi, dove il terzo settore non è usato al ribasso perché non ci sono risorse e viceversa non pretende di diventare un sostituto dei fondamentali dello Stato – che devono rimanere di competenza della cosa pubblica – allora questa è la sussidiarietà orizzontale che ho in mente.
E alla Fondazione Floriani cosa rimane ancora da fare?
Il nostro prossimo obiettivo è ampliare il raggio d’azione. Finora la gran parte delle cure palliative è stata messa in campo come risposta ai malati di cancro. Dei 250mila pazienti che necessitano di cure palliative, solo la metà di questi sono malati oncologici. Ci sono anche tante altre malattie che necessitano della stessa assistenza. Non solo perché c’è l’emergenza sanitaria data dell’aumento esponenziale di anziani, che porta con sé anche un aumento dei malati terminali, ma soprattutto perché l’approccio palliativo deve diventare culturale. C’è una bella differenza tra l’occuparsi delle cellule malate del tuo fegato e occuparsi della persona nella sua globalità. Le scoperte scientifiche portano inevitabilmente da una parte un delirio di onnipotenza e dall’altra una messa nell’angolo della componente umana della medicina. Questo, secondo noi, è il pericolo più grande.
Perché?
Perché chi si occupa di palliazione, di cure di fine vita, si rende conto che non è mai possibile non mettere al centro del percorso di cura la persona nella sua globalità. C’è ancora molto da fare quando non si può più guarire. Qui sta la differenza tra il “guarire” e il “prendersi cura”. Perché la sofferenza non è solo fisica, è una sofferenza globale, spirituale, familiare, sociale. Perché avere sollievo dal dolore è un diritto di tutti. Per questo dobbiamo andare avanti con la nostra battaglia di civiltà.

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