Welfare
Obiettivo San Vittore missione impossibile
Per qualcuno è lultimo girone dellinferno. Qui sono rinchiusi gli infami, i detenuti che rischierebbero grosso se messi assieme agli altri condannati. Eppure Fiorella tra questi paria delle gal
San Vittore, un qualunque sabato pomeriggio, ore 14 circa. La signora Fiorella Bertacchi, come le accade da dieci anni a questa parte, varca la soglia dell?enorme casa circondariale di Milano (dove sono ospitati più di duemila detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio; le attese possono durare 2/3 anni). Passa dalla Sala degli avvocati, quindi entra nel carcere vero e proprio, dall?ironica forma di un fiore, e si dirige verso quello che si potrebbe affrettatamente definire ?l?ultimo girone dell?Inferno?, il Sesto raggio di San Vittore. Al secondo piano , ecco il luogo di detenzione degli ?infami?, nella rigida gerarchia dei detenuti gli ultimi, i ?paria?: coloro che hanno commesso reati a sfondo sessuale, quelli che hanno ?parlato?, i tossici che hanno compiuto rapine con siringhe infette, i poliziotti e le guardie giurate che hanno tradito, i travestiti.
Non mi sono mai sentita buona
Non possono stare con gli altri galeotti: anche ?l?aria? viene presa in orari diversi, non per la sicurezza degli altri, ma per loro. Non possono muoversi per il carcere, se non abbondantemente scortati. Non possono frequentare i corsi e le iniziative che si svolgono negli altri raggi. Gente per lo più malata, per cui non sono previste cure o terapie, se non per eventi eccezionali. I più detenuti tra i detenuti. «Ma ultimamente, anche grazie al nostro lavoro di volontariato», spiega con la faccia dura la signora Bertacchi, «anche loro hanno iniziato, per così dire, a dare segni di vita.
Hanno costituito una commissione che si occupa delle richieste del direttore, e da circa tre anni siamo riusciti ad organizzare un corso di Ragioneria anche al Sesto raggio».
Fiorella Bertacchi, insegnante di italiano prossima ormai ai cinquant?anni, è ormai una professionista del lavoro volontario in carcere, attività che per qualche anno ha svolto anche in compagnia della figlia. Insieme agli altri volontari della Sesta opera di San Fedele (associazione che da 70 anni svolge attività solidaristiche a San Vittore), la signora Fiorella è stata tra le pioniere nell?organizzare corsi di scrittura, di storia, monografie brevi perché possano essere seguite anche dai detenuti del Sesto raggio, spesso immobili per settimane nelle loro celle, storditi dalla depressione e dai tranquillanti. Una cella del Sesto raggio è stata recentemente adibita a biblioteca, con libri donati dai volontari, e da molte altre persone, per le letture dei galeotti. «Ormai l?impressione che ho quando entro qui dentro è di entrare a casa mia, le emozioni e le forti titubanze dell?inizio non ci sono più», spiega la signora, aprendosi in un inaspettato sorriso che durerà fino alla fine dell?intervista. «Si è formato in questi anni uno sguardo diverso su di loro, sui carcerati. Prima c?era il timore, e c?erano le domande senza risposta di quando vedi quelli più giovani, dell?età di mio figlio Francesco, in carcere magari per omicidio: c?era la ripulsione per quello che non capivo. Una cosa, però, non ho mai provato: non mi sono mai sentita quella buona che andava a trovare i cattivi. Solo una persona che va da altre persone, che sono lì e che aspettano».
Parlando con la signora Fiorella matura una certa impressione, ossia che molti falsi presupposti che si hanno sulla detenzione si rivelano, per l?appunto, essere tali. Insomma, quasi come il Diavolo, il carcere, da dentro, non è brutto come lo si dipinge. «Il problema è che viene demonizzato dalla società civile. Il detenuto, allora, nell?immaginario collettivo si trasforma nel suo crimine, perde l?identità di uomo e dunque anche i suoi diritti. Il carcere serve soprattutto a far stare tranquilli quelli che ne stanno fuori». I buoni, quindi, che possono vivere la propria vita, con la certezza che lo Stato illuminista li garantisce rinchiudendo i cattivi in un mondo a parte, dove non possono far del male a nessuno se non a loro stessi.
Se non ci fossero i volontari…
Proprio questo fa veramente paura alla signora Bertacchi: «Il carcere è un ambiente isolato, al di fuori del tempo e della normalità, dove una persona malata non può far altro che peggiorare nel suo stato. Mi creda, l?unica cosa che salva molti sono proprio gli incontri e le attività che organizziamo noi volontari».
Può sembrare una favola per educande ma è la realtà: negli ultimi anni, per fare un esempio, sono stati organizzati a San Vittore dei corsi di catechismo per coloro che vogliono fare la Cresima (la maggior parte dei volontari in carcere è di matrice cattolica). I detenuti hanno deciso di frequentarlo soprattutto per avere un motivo in più per uscire di cella; altri, invece, per ?portarsi avanti? in caso di matrimonio una volta fuori.
«Io sono la prima a essere scettica su queste cose, ma il carcere è fonte di continue sorprese. Molti galeotti si sono ritrovati davanti la propria anima, una cosa a cui non avevano mai pensato; si sono posti delle questioni nuove. Ho visto gente che finalmente ricominciava a pensare». Ecco la certezza, quindi, di svolgere un lavoro davvero utile; un lavoro che se non fosse portato avanti dai volontari, data la latitanza delle istituzioni, non verrebbe svolto affatto.
«Una decina di anni fa mi sono ritrovata, pur facendo una miriade di cose, ad avere la sensazione di buttare via il mio tempo. Sentivo il bisogno di uno spazio di gratuità, qualcosa che finalmente non fosse monetizzato, proprio per dare senso anche a tutto il resto: il carcere mi è sembrato il luogo dove ci fosse più bisogno di me».
Se volete fare come me
Un?attività, quella del volontariato in carcere, che tutti ?se lo sentono veramente dentro? possono svolgere. In base all?articolo 78, infatti, qualsiasi privato che non abbia pendenze giudiziarie, può richiedere al ministero di Grazia e giustizia il patentino da volontario, che permette l?ingresso tutti i giorni, dalle 8 alle 17, per apportare la propria opera di ?sostegno morale? ai detenuti.
«All?inizio non è facile, perché non si fidano di te, ti chiedono continuamente e con sospetto chi te lo fa fare di stare lì dentro, tu che hai la possibilità di andare fuori. Poi, però, sono loro che cominciano a chiedere i colloqui; hanno fiducia in te, ti conoscono e tu conosci loro, e a quel punto inizia il vero impegno: ogni volta che li incontri ti chiedono di fare duecento cose, di scrivere a questo, di comprare quello, di telefonare alla mamma a Messina perché è il suo compleanno; indossano subito gli abiti degli assistenzializzati. Non se ne accorgono, secondo me, ma si comportano come se tutto fosse loro dovuto. Ogni tanto dico basta, perché esagerano; però poi penso che se non ci fossimo noi il mondo si terrebbe bene alla larga da questo posto. E, per il bene di tutti, questo non deve accadere». Potrebbe sembrare un angelo, Fiorella Bertacchi, sceso nei meandri bui dell?Inferno per portare un po? di luce. Ma lei non è un angelo, e ci tiene a sottolinearlo. Ma, soprattutto, il luogo della sua discesa non è l?Inferno; anche se è lo stesso un luogo di dannati.
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