Chiedo scusa ai lettori di questo blog per la mia prolungata assenza estiva dalla rete, ma sono stato in Kenya per alcuni giorni. Sta di fatto che nel frattempo sono successe tante cose in Africa, basti pensare ai fatti cruenti nel nord est della Nigeria dove un paio di settimane fa hanno perso la vita oltre 800 persone. Per non parlare del controverso referendum per emendare la costituzione nel Niger. Siccome è praticamente impossibile stare dietro alla cronaca, vorrei condividere alcune considerazioni sulla politica di Washington in Africa, un tema che mi sta molto a cuore. A parte l’aver ricordato con una certa enfasi che nelle sue “vene scorre il sangue dell’Africa”, Barack Obama finora non si è molto discostato dalla politica dei suoi predecessori. Anzi, per certi versi, ha persino rafforzato i contenuti di quello che è stato l’indirizzo impresso dalla Casa Bianca ai tempi della presidenza clintoniana, accesa fautrice di una partnership strategica con l’Africa. La dice lunga a questo proposito il rafforzamento delle relazioni bilaterali di cui il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton s’è fatta portavoce in questi giorni visitando sette Paesi africani. Anzitutto perché ha ribaditoche la nuova amministrazione della Casa Bianca è intenzionata a garantire non solo un sostegno economico all’Africa, ma anche a rilanciare la politica Usa fortemente indebolita durante la presidenza di George W. Bush, in concomitanza con la crescita esponenziale degli investimenti cinesi. L’elemento discriminante, in questo caso tra Pechino e Washington sta proprio nel fatto che Obama intende la cooperazione non solo in termini meramente economici, ma anche nel più generale contesto della sfida per la promozione della democrazia. D’altronde proprio ad Accra un mese fa, Obama aveva stigmatizzato la condotta di certi governi africani ricordando che “nessuno ha voglia di vivere in un Paese africano in cui regnano ferocia e corruzione. Questa non è democrazia, ma tirannia anche se qualche volta si va a votare. E tutto questo deve finire”. Premesso che dalla fine del colonialismo le ingerenze straniere in terra africana hanno consentito ad uno stuolo di “presidenti-padroni” di fare il bello e cattivo tempo, varrebbe forse la pena ricordare che la corruzione, come scrive John Christensen, direttore di “Tax Justice Network” prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro (inteso come soggetto richiedente sul mercato dell’illecito) e colui che lo consegna (il cosiddetto offerente). Ora se il computo delle truffe integrasse non solo la “domanda”, ma “anche la dimensione dell’offerta”, la graduatoria dei Paesi con un alto indice di corruzione sarebbe assai diversa da quella che viene solitamente pubblicata sui giornali e vedrebbe in testa nazioni con alti standard di democrazia. È per questa ragione che il ragionamento di Obama sulla situazione economica in cui versa la terra di suo padre, il Kenya, convince fino a un certo punto. Di fronte al parlamento ghanese, il presidente Usa ha ricordato che nel 1961, anno della propria nascita, il Kenya vantava un Pil pro capite maggiore della Corea del Sud, mentre adesso è attestato al 148esimo posto nell’Indice dello sviluppo umano. Peccato che poi però non abbia speso una sola parola per ricordare che se le cose non vanno in Africa è perché le responsabilità sono condivise e non riguardano solo certi famelici tiranni. Le ingerenze americane nelle vicende africane sono innegabili e ben documentate: a partire dai tempi dell’ex presidente congolese Mobutu Sese Seko; per non parlare di quanto accaduto più recentemente in regioni strategiche come quella dei Grandi Laghi o del Corno d’Africa. Dulcis in fundo, varrebbe la pena ricordare che proprio nella sua recente visita in Kenya, la signora Clinton, a nome di Obama, ha confermato la validità dell’African Growth and Opportunity Act (Agoa). Si tratta di un programma approvato dal Congresso statunitense nel 2000 e che la nuova Amministrazione intende rilanciare nell’ambito del progetto “Aid for Trade” (aiuto per il commercio). Una strategia molto controversa, decisamente in favore delle multinazionali, e che comunque non basterà a risollevare le sorti dell’Africa, nell’attuale clima di recessione mondiale. Soprattutto se gli Stati Uniti non avranno il coraggio di rivedere, assieme all’Unione Europea la politica di sussidi ai propri agricoltori, imponendo peraltro pesanti dazi alle esportazioni africane. Ecco perché saranno i fatti e non le parole a stabilire se Obama saprà riconciliare i propri interessi con le legittime aspirazioni di libertà e democrazia profuse nei confronti dell’Africa.
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