Welfare

Nuovo regionalismo: la partita del welfare

Le Regioni reclamano autonomia nell’offerta dei servizi e, soprattutto, nella gestione del personale e delle risorse assegnate con l'eliminazione dei vincoli di spesa. C’è il rischio che la maggiore differenziazione regionale si traduca nell’aumento dei divari regionali

di Francesco Dente

Sanità, lavoro, istruzione. Ma anche disabilità, immigrazione, non autosufficienza. C’è più welfare di quanto non si dica nelle richieste di autonomia avanzate dalle Regioni al Governo centrale. Dopo Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, le tre apripista che hanno già siglato pre-accordi sul cosiddetto “regionalismo differenziato”, si sono aggiunte Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria, che hanno conferito ai presidenti l’incarico di avviare trattative con Roma, seguite da Basilicata, Calabria e Puglia che si stanno movendo in tal senso. Tutte chiedono il trasferimento di competenze.

C’è molto più welfare di quanto non si immagini perché, come è noto, le Regioni hanno già la competenza esclusiva sul welfare in senso stretto, i servizi sociali. Le competenze che ora chiedono sono invece quelle incluse nell’elenco delle 20 materie di legislazione “concorrente”, le materie cioè regolate da norme regionali e da principi statali, più altre 3 comprese negli ambiti di esclusiva competenza dello Stato. Ebbene, se si prova a scorrere le richieste presentate, si scoprono non pochi temi di rilievo sociale. Capitolo tutela della salute. La domanda più diffusa è: maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di rimunerazione e di compartecipazione (limitatamente agli assistiti residenti nella regione). Tema caldissimo che tocca anche il settore socio-sanitario e dunque il terzo settore.

Capitolo tutela e sicurezza del lavoro. I territori vogliono più potere nella gestione delle politiche attive del lavoro: interventi dunque nei confronti di disoccupati, beneficiari di sostegno al reddito ma anche soggetti svantaggiati. La Toscana, in particolare, sollecita la concessione di più spazi nell’attivazione di convenzioni con le cooperative sociali per l’inserimento mirato delle persone disabili.

Istruzione. Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Marche chiedono di istituire fondi pluriennali per il diritto allo studio scolastico e universitario.

Stranieri. La Toscana invoca più libertà nell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati.

Infine, previdenza complementare e integrativa. Bussano alla porta del Governo la Liguria e, soprattutto, il Piemonte che intende utilizzare questo strumento per potenziare le politiche per la non-autosufficienza.

Più in generale, relativamente ai settori lavoro, sanità e istruzione, le Regioni reclamano autonomia nell’offerta dei servizi e, soprattutto, nella gestione del personale e delle risorse assegnate (eliminazione dei vincoli di spesa). C’è il rischio che la maggiore differenziazione regionale si traduca nell’aumento dei divari regionali. Con buona pace dell’uguaglianza fra cittadini. E che al turismo sanitario si aggiunga ad esempio quello scolastico. Il nodo principale, inutile girarci intorno, è quello delle risorse che accompagneranno il trasferimento di competenze. Il pre-accordo con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna precisa che saranno quantificate dapprima in relazione alla spesa storica e poi ai fabbisogni standard misurati in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale.

«Si stabilisce che gli ambiti territoriali nei quali il reddito dei cittadini è più alto e dunque si pagano più tasse hanno diritto a ottenere un livello di servizi più alto», punta il dito Gianfranco Viesti, economista dell’Università di Bari che su change.org ha lanciato la petizione “No alla secessione dei ricchi”. Stessa lunghezza d’onda per Maria Cecilia Guerra, docente di Scienze delle finanze all’ateneo Modena e sottosegretario al Welfare nei Governo Monti e Letta. «Premetto che fino a quando non si definisce la questione delle risorse, che nel testo è scritta in modo sibillino, la paura è grande ma le conclusioni sono ancora ipotetiche. Se si garantisce però un finanziamento legato ai fabbisogni standard alle regioni che scelgono il federalismo differenziato c’è il rischio che si impoveriscano le altre regioni». Di tutt’altro avviso, Stefano Bruno Galli, assessore all’Autonomia e Cultura della Lombardia che insegna Dottrine politiche all’università di Milano.

«Le preoccupazioni del professor Viesti sono prive di fondamento. È semmai vero il contrario. Perché quasi cinquant’anni di regionalismo ordinario dell’uniformità, quello praticato dal 1970 a oggi, hanno aggravato le disuguaglianze tra Nord e Sud». Il punto, il dramma anzi, è che a diciotto anni dalla riforma della Costituzione non sono stati ancora definiti i livelli essenziali dei diritti sociali che spettano ai cittadini. «Logica vorrebbe che prima si fissassero criteri uguali per tutto il paese. Poi se una Regione vuole gestire un servizio in autonomia, questo non ha alcun effetto sugli importi finanziati. Il rischio invece è che si fissino criteri regione per regione in una trattativa a due col Governo», rincara la dose Viesti.

A cui fa eco Guerra. Secondo la professoressa: «i fabbisogni standard dovrebbero essere definiti contemporaneamente con i livelli essenziali». Tesi non condivisa a pieno dall’assessore lombardo. «I livelli essenziali delle prestazioni non sono in discussione perché garantiti dalla Costituzione. Spetta alle Regioni la loro concreta declinazione e qui entra in gioco il regionalismo differenziato. Chi è virtuoso avrà maggiore spazio di manovra per migliorare. Chi è inadempiente dovrà essere invece accompagnato dallo Stato, con risorse e best practice adeguate per diventare come i più bravi», osserva Galli.

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