Li chiamano “nuovi poveri”, causati dall’ultima crisi. Ma nuovi perché? Che cosa possono avere di nuovo i poveri?
Sono vecchi, antichi come il mondo, ci sono sempre stati. Si è sempre preferito tenerli fuori dal campo visivo, ma c’erano e ci sono. Li pensiamo più facilmente relegati in posti remoti del mondo – i paesi poveri appunto – che noi si stenta a individuare sulla mappa. Si è sempre usato mandar loro, da una distanza di sicurezza, aiuti in caso di alluvioni, terremoti o guerre, con donazioni di slancio di fronte a immagini di dolore.
A un certo punto quei “vecchi” poveri lontani hanno pure osato avvicinarsi in numeri inediti. A emigrare da quegli angoli del pianeta per materializzarsi agli incroci delle nostre strade, “invasori” pericolosi – secondo alcune narrazioni – per il nostro benessere. Mentre i paesi ricchi si accapigliavano per scaricarsi a vicenda l’accoglienza o il respingimento di flussi incontrollabili, si è abbattuta la pandemia e ha cambiato i nostri punti di riferimento. E i poveri sono diventati (e non è neppure la prima volta) “nuovi” perché alla fine hanno assunto tratti prossimi a noi, persino quelli dei vicini di casa che, perso il lavoro (era davvero così precario?) si trovano in difficoltà a garantire la cena ai figli.
Questi nuovi poveri si mettono in coda, insieme ai vecchi poveri, ai cancelli dei centri di solidarietà per ricevere un sacchetto di cibo o si iscrivono alle liste di comuni e parrocchie per ricevere aiuti a casa. Li vediamo solo se passiamo per quella strada dove si allungano le file del pane, o se finiamo sui social media che ne rilanciano – indignati – il video.
Sarebbe interessante se ognuno potesse nella vita, almeno una volta, vivere l’esperienza fisica di portare un pacco di alimenti a un povero. La sequenza sarebbe questa: tirare su da terra lo scatolone pieno e sigillato, avvertirne il peso sulle braccia, caricarlo in auto e poi scaricarlo, suonare il campanello, salire le scale del condominio – tutto sempre con il macigno in braccio, la schiena che duole e la domanda “che ci faccio qui” -, sentire l’odore del vano scale, attendere sul pianerottolo che si apra la porta, vedere il volto di chi apre esitando a incrociare lo sguardo, salutare, avvicinarsi al primo tavolo disponibile e mollare finalmente il peso.
Non è facile capire se sia di più l’imbarazzo o la timidezza o il disagio, e se sia in chi consegna o in chi riceve. Può accadere solo uno scambio di convenevoli, “come va, tutto bene? …”, ma comunque è un incontro. E non può non fare breccia.
Questa sequenza non è emozione, non è inchiesta, è una trasferta che attraversa il pianeta.
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C. Collodi, Pinocchio
Si legge che la pandemia chiede un cambio di passo al modello di sviluppo, al nostro stile di vita, all’economia, alla politica. Sarebbero parole ameba, senza carne, se non ci fossero dei dettagli a renderle incarnate. Come l’etichetta sul pacco alimentare per i bisognosi oggi di Milano, per esempio: capita che sia, in alcune consegne, quella dell’agenzia americana USAID. La stessa etichetta che si trova sugli aiuti che si consegnano in paesi in via di sviluppo. Le ong che per decenni si sono impegnate là, ora lavorano anche in regioni europee, le locomotive dell’economia, con progetti identici a quelli implementati in Burundi o in Congo, seguono le stesse procedure, aiutano beneficiari con i medesimi bisogni: di mangiare, di essere accompagnati dal punto di vista psicologico e sociale, di essere curati, di trovare un lavoro.
Si muovesse un passo in più nella consapevolezza di quanto sia antica e prossima questa nuova povertà, di come ci investa in pieno fin nei minimi gesti, si sarebbe fuori dall’inverno, in un mattino di aprile. Di un tempo, quello sì, “nuovo”.
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