Welfare

Nuove soluzioni per nuovi bisogni Un’occasione per le imprese sociali

Perché ricostruire le basi del consenso intorno a una rinnovata funzione pubblica

di Redazione

Che in termini di welfare nessuno dei policy makers – pubblici e non solo – se la sia sentita di mettere mano a un percorso di riforma istituzionale, lo dimostra il poco fatto dopo l’uscita del Libro bianco sul futuro del modello sociale e, ancor di più, il dibattito estivo sulla Big Society all’italiana lanciato dal ministro Sacconi: stimolante ma un po’ povero di proposte, al di là di slogan, a dire il vero un po’ consunti, come «Più società e meno Stato». Utilizzando un linguaggio da tecnologi, c’è un evidente fenomeno di lock-in nel welfare italiano.
Tutti gli attori sono stati letteralmente catturati da un impianto culturale, normativo e gestionale che per quanto datato consente di produrre vantaggi contingenti che impediscono l’innovazione di sistema. Se a questo si aggiungono i notevoli costi di investimento per la definizione di un nuovo standard, lo stallo è assicurato. In altri termini le sperimentazioni di questi ultimi trent’anni, spesso nate dal basso senza seguire un disegno di riforma comune, hanno generato una massa inerziale a tutto vantaggio dello status quo, frenando ogni tentativo di autentico riformismo. Frenano gli enti pubblici perché vogliono mantenere il controllo su un importante veicolo di consenso. Frenano gli utenti già inseriti nei circuiti della protezione sociale, soprattutto in questa fase di grande incertezza. E frenano gli erogatori dei servizi per conto della pubblica amministrazione, anche quelli non profit, che molto hanno investito per qualificare proprio questo loro ruolo attraverso certificazioni, accreditamenti, gare d’appalto ecc.
Da dove ripartire? Il Censis rilancia il confronto fra gli attori istituzionali utilizzando parole chiave ben conosciute: partnership, territorio, sperimentazione, diversificazione (dei servizi) e integrazione (fra i soggetti). E solo accennando a quella che può essere invece la strada maestra (seppur lunga e accidentata): ricostruire le basi del consenso intorno ad una rinnovata funzione pubblica del welfare. I diretti interessati, i cittadini, sembrano mostrare una timida propensione in tal senso, anche se la funzione di voice, cioè di reclamo rispetto a nuove soluzione per nuovi bisogni magari pensando anche ai molti esclusi, sembra avere le armi spuntate.
Potrebbe essere una buona occasione per le imprese sociali, se si scrollassero di dosso un po’ della cultura statalista che ne ha ispirato, almeno in parte, strategie e comportamenti recenti, abbandonando un mero ruolo di subfornitura, indubbiamente ben giocato ma non coerente finalità d’impresa che scomodano «l’interesse generale della comunità». Per un obiettivo di questa portata il confronto istituzionale (tipo Piani di zona e strumenti simili) non basta, anzi non funziona perché alimenta il blocco al cambiamento e spinge a investire ulteriormente su una tecnologia sociale ormai al limite della sua efficacia. Meglio aprire un dialogo diretto con i cittadini.
E qualche iniziativa si vede in giro: come «Condividere il cuore» di Cgm che porta in piazza le sue cooperative e usa il medium culturale per dialogare con la cittadinanza di cura, inclusione, qualità della vita. Ma c’è altro: è recente la pubblicazione di un interessante indagine esplorativa sulla propensione comunitaria delle regioni italiane, una specie di misura del potenziale di mobilitazione della società civile per rispondere, in prima persona, ai propri bisogni.
Chi ha redatto il rapporto? Il terzo settore? No, Confartigianato, in occasione del suo «Festival della persona». E ancora, si scopre che il valore dei consumi di welfare “out of pocket” delle famiglie italiane (quindi oltre la tassazione) vale, in media, il 7% del loro budget (poco meno di 150 euro al mese), con aumenti consistenti al crescere dell’età dei membri della famiglia e del loro livello di reddito. Chi ha misurato questi consumi? Il ministero delle Politiche sociali? No, Coop Italia. Esempi che nella loro diversità dicono, se non di un cambiamento vero e proprio, almeno di uno studio sulla sua fattibilità.

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