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Nuove scoperte per combattere leucemia linfoblastica acuta
Ematologi italiani hanno scoperto che nel midollo osseo di pazienti con leucemia Philadelphia sono presenti linfociti T, particolari 'soldati' del sistema immunitario, capaci di riconoscere e uccidere le cellule malate
di Redazione
Dalla ricerca italiana nuove speranze contro la leucemia linfoblastica acuta positiva al cromosoma Philadelpia, l’alterazione genetica piu’ frequente nelle forme acute di leucemia fra gli adulti (20-30% dei casi) e negli over 50 (oltre il 50% dei casi). Un gruppo di ematologi dell’Azienda ospedaliero-universitaria Policlinico di Modena, guidati da Mario Luppi, ha dimostrato per la prima volta che nel midollo osseo di pazienti con leucemia Philadelphia sono presenti linfociti T, particolari ‘soldati’ del sistema immunitario, capaci di riconoscere e uccidere le cellule malate. La scoperta, pubblicata su ‘Blood’ e sostenuta da Ail Onlus, apre nuovi orizzonti nella cura di questo tumore del sangue. Permette infatti di studiare la possibilita’ di somministrare farmaci mirati al difetto cromosomico della leucemia, capaci nello stesso tempo di favorire lo sviluppo di linfociti T antileucemici. Lo studio, su 10 pazienti, parte dall’osservazione che i malati di leucemia linfoblastica acuta Philadelphia-positiva, trattati con il farmaco ‘intelligente’ imatinib e in remissione da alcuni anni, mostravano un singolare aumento del numero dei linfociti normali nel midollo osseo. “La nostra idea – spiega Luppi in una nota – era che questi linfociti T potessero avere un ruolo attivo nel controllare e spegnere la malattia leucemica in questi pazienti. Pertanto abbiamo messo a punto una serie di metodiche di studio immunologico per dimostrare che questi linfociti – presenti in grande abbondanza sia nel midollo osseo sia, seppure con minore frequenza, nel sangue periferico – sono in grado di svolgere una funzione antitumorale, mediante la produzione di sostanze o citochine, come l’interferone gamma, e di esercitare un effetto diretto di lisi, ovvero di distruzione delle cellule leucemiche stesse”.
Le prove dell’esistenza e dell’efficacia di un’immunita’ antileucemica sono state raccolte e descritte in questi anni pressoche’ esclusivamente in pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo e cellule staminali periferiche. “Solo recentemente – continua Luppi – la presenza nel midollo osseo di cellule capaci di riconoscere e colpire cellule tumorali e’ stata segnalata in pazienti pediatrici affetti da leucemia mieloide acuta ed in pazienti colpiti da mieloma multiplo e da tumori solidi. I nostri dati suggeriscono che anche nei pazienti con questo particolare tipo di leucemia linfoblastica acuta si possa cominciare pensare a nuove esperienze di immunoterapia, ovvero di terapia basata sulla espansione in vitro e sulla reinfusione di linfociti ad attivita’ antileucemica specifica, in combinazione con le terapie gia’ esistenti”. Questo tipo di trattamento si e’ gia’ dimostrato efficace contro i linfomi causati da infezione da virus di Epstein-Barr, che insorgono in pazienti immunocompromessi, trapiantati di midollo o di organi solidi. “Nel campo delle leucemie c’e’ ancora moltissima strada da fare – precisa Giuseppe Torelli, direttore della Struttura complessa di ematologia del Policlinico di Modena – ma il nostro gruppo sta attivamente collaborando con il gruppo di Patrizia Comoli del Policlinico San Matteo di Pavia”, co-autore della ricerca, “per sviluppare un programma di studio volto all’espansione di linee cellulari T citotossiche antileucemiche, come gia’ viene fatto a Pavia per linee cellulari T citotossiche anti-virus di Epstein-Barr”. L’attivita’ antileucemica dei linfociti T e’ stata dimostrata in tutti i 10 pazienti in terapia con imatinib, suggerendo che possa esistere una relazione e una sinergia tra l’azione antitumorale diretta del farmaco e l’effetto antitumorale indiretto del sistema immune. “Il nostro laboratorio – evidenzia Luppi – sta producendo dati, ancora non pubblicati, che mostrano come questo effetto antileucemico si possa riscontrare nel midollo osseo di pazienti con la stessa malattia, ma in corso di trattamento con altri inibitori di tirosin-chinasi, quali il nilotinib”. Infatti “e’ ipotizzabile che il fenomeno da noi descritto sia un fenomeno piu’ generale, che possa valere la pena di essere studiato anche in altri contesti clinici, ed in particolare anche in pazienti con tumori solidi, attualmente in cura con farmaci appartenenti alla stessa classe di inibitori”, conclude l’ematologo.
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