Mondo

Nubi sugli aiuti degli Stati Uniti in Africa nell’era di Donald Trump

Il New York Times rivela l’esistenza di un questionario sul futuro della politica estera degli Stati Uniti in Africa, inviato dalla squadra transitoria di Donald Trump al Dipartimento di Stato e al Pentagono. In attesa delle risposte, le domande lasciano intuire una svolta radicale sugli aiuti allo sviluppo e gli impegni di Washington in tema di sicurezza.

di Joshua Massarenti

“Perché dovremmo spendere così tanti fondi [negli aiuti umanitari e allo sviluppo] a favore dell’Africa quando abbiamo tanta gente che soffre negli Stati Uniti?” La domanda ha l’effetto di una bomba, tanto più se a formularla è il team transitorio del nuovo Presidente degli USA, Donald Trump, che tra meno di 48 ore si insidierà alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni.

Una domanda tra tante altre sottoposte nelle scorso settimane al Dipartimento di Stato e al Pentagono in un questionario di quattro pagine sulla futura politica estera degli Stati Uniti in Africa di cui il New York Times rivela l’esistenza. Nessun attore, né settore viene risparmiato. “Con una corruzione così dilagante in Africa, quanti dei nostri finanziamenti sono stati rubati?”, menziona ad esempio il NYT. Stessa inquietudine sul versante commerciale che conferma tra l'altro l’ossessione di Trump nei confronti della Cina: “In che modo i nostri impreditori riescono a competere con altri paesi in Africa? Stiamo perdendo terreno rispetto alla Cina?”

Perché dovremmo spendere così tanti fondi [negli aiuti umanitari e allo sviluppo] a favore dell’Africa quando abbiamo tanta gente che soffre negli Stati Uniti?

Più sorprendenti sono invece le perplessità che animano il team di Trump riguardo i risultati ottenuti negli ultimi anni sulla sicurezza e la lotta contro il terrorismo: “il documento chiede perché gli Stati Uniti sono così restii nel combattere Boko Haram, perché tutte le ragazze rapite dal gruppo terrorista non sono state salvate e se i responsabili delle cellule di Al Qaeda presentin Africa non vivono negli USA”, sottolinea il New York Times. E ancora: “E’ da un decennio che lottiamo contro [i terroristi somali di] Al-Shabaab, come mai non abbiamo vinto?”

E’ troppo presto per trarre conclusioni definitive, ma certo è che il tenore delle domande fa già molto discutere. “Buona parte di quelle affrontate nel questionario sono buone, qualsiasi amministrazione dovrebbe porsele prima di governare”, assicura Monde Muyangwa, direttrice del programma Africa dell’istituto Woodrow Wilson, tra i think tank più influente al mondo e il cui consiglio di amministrazione è composto da rappresentanti del governo federale americano e da cittadini nominati dal presidente degli Stati Uniti. “Alcune di loro suggeriscono una definizione più ristretta degli interessi degli Stati Uniti in Africa, e un approccio più transazionale e di breve termine sulle policies e l'impegno degli USA con i paesi africani”. Secondo Muyangwa, i quesiti potrebbero essere il segnale di “una svolta drastica nel modo con cui gli Stati Uniti si impegneranno in Africa”.

C'è il rischio di una svolta drastica nel modo con cui gli Stati Uniti si impegneranno in Africa

Monde Muyangwa, direttrice del programma Africa dell’istituto Woodrow Wilson

Di parte diverso è J. Peter Pham, citato nei media americani per sostituire Linda Thomas-Greenfield nel ruolo di vice-segretario di Stato con delega agli Affari africani. Per l’attuale direttore del Programma Africa del think tank conservatore Atlantic Council, la svolta non è così scontata, mentre è più probabile che la nuova amministrazione darà maggiore attenzione alla lotta contro il terrorismo e alle opportunità di business per gli imprenditori americani.

Le reazioni al questionario confermano comunque le divergenze intraviste nei giorni scorsi su altri dossier tra le personalità destinate ad asumere responsabilità governative nell’era Trump e le comunicazioni diffuse dal neo-presidente e dalla sua squadra transitoria. Mentre una domanda rimette chiaramente in discussione i benefici dell’African Growth and Opportunity Act (AGOA), l’accordo di libero scambio lanciato nel 2001 per facilitare l’accesso dei prodotti manufatturieri africani al mercato statunitense, consentendo un raddoppio degli scambi commerciali tra USA e Africa, Pham ricorda che “l’AGOA ha creato più di 120mila posti di lavoro negli Stati Uniti.

Al di là dei disaccordi presunti o reali, la visione strategica sembra molto, se non tutta incentrata a favorire gli interessi americani sul continente africano. Soprattutto, mai gli aiuti allo sviluppo sono stati così minacciati. Secondo l’ultimo rapporto del Comitato dell’OCSE sull’aiuto allo sviluppo, nel 2015 gli Stati Uniti hanno destino lo 0,17% del proprio Pil agli APS contro lo 0,19% nell’anno precedente. In valore assoluto, Washington è il più importante paese-donatore al mondo, ma sugli oltre 30 miliardi di dollari erogati nel 2015, solo 8,8 miliardi sono stati destinati a 54 paesi africani, appena 3,3 miliardi in più rispetto all’Afghanistan, il paese più aiutato dall’amministrazione statunitense. A quanto ammonteranno gli APS nei prossimi anni? La domanda sta angosciando non poco il mondo della cooperazione internazionale, e non solo quella made in USA.

A dimostrazione che la futura amministrazione Trump non vede di buon occhio gli APS, il questionario punta il dito contro il programma Pepfar avviato nel 2003 dall’ex presidente Bush per lottare contro l’AIDS. Sulla scia di molti esperti americani, durante la sua audizione al Senato il futuro Segretario di Stato, Rex W. Tillerson, ha definito Pepfar “uno dei programmi che ha riscontrato maggior successo in Africa”. Ma il team transitorio di Trump non la vede allo stesso modo: “A fronte dei numerosi problemi di sicurezza ai quali il continente africano è confrontato, è giustificato continuare a investire in modo così massiccio in Pepfar?”

Per il direttore del Global Health Policy Center, J. Stephen Morrison, interpellato dal New York Times, questo tipo di domande dimostrano “una percezione negativa e denigratoria” nei confronti dell’Africa, le cui relazioni con gli Stati Uniti saranno probabilmente ridimensionate e soprattutto allineate alla volontà di Trump di proteggere a tutti i costi gli interessi nazionali. Con buona pace di chi in Africa deve fare i conti con la povertà, i conflitti e le pandemie, la domanda sui rischi che possono sussistere con future epidemie mondiali riassume bene l’impronta che il nuovo inquilino della Casa Bianca vuole dare alla cooperazione internazionale: “In che modo possiamo proteggere gli Stati Uniti dai rischi di un nuovo Ebola?”, si chiede il team di Trum. Chi tifa per l'immobiliarista milliardario dirà che il nuovo presidente americano non fa altro che esprimere a voce alta le stesse inquietudini che agitano molti leader nel mondo di fronte ad un’eventuale nuova epidemia come quella che colpì tra il 2013 e il 2015 la Guinea, la Sierra Leone e la Liberia. Sta di fatto che con il questionario, la società civile americana (e non solo) farà di tutto per contrastare la nuova visione strategica della Casa Bianca sulla cooperazione internazionale.

Clicca qui per accedere all'articolo del New York Times.

Foto di copertina: Murales dell'artista keniota Evans Yegon al GoDown art Centre di Nairobi. Simon Maina/Getty Images

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.