Famiglia

Novara: per spegnere la violenza, bisogna litigare. Ma bene

Compie dieci anni il metodo "Litigare bene" di Daniele Novara, che insegna a gestire i conflitti tra bambini sviluppando la loro autonomia relazionale. Più di 8mila persone sono state formate in Italia e l'approccio a breve approderà in Cina. I bambini che imparano a litigare bene? «Saranno adulti in grado di orientarsi nel ginepraio delle differenze, sul lavoro, in famiglia e nella coppia»

di Veronica Rossi

Il conflitto, nelle relazioni umane, spesso spaventa. Eppure si tratta di un’importante occasione di crescita. Il metodo “Litigare bene”, ideato dal pedagogista Daniele Novara, direttore e fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (Cpp), ha portato dieci anni fa una rivoluzione copernicana nel modo di vedere la conflittualità tra bimbi: si tratta di un momento di apprendimento fondamentale, che i più piccoli hanno le risorse per gestire in autonomia. Il 31 agosto, durante il convegno online “Litigare bene si può” verranno tirate le somme della prima decade di applicazione del metodo, che sinora ha visto coinvolti nella formazione circa 8000 adulti, tra genitori, insegnanti ed educatori, mentre sono centinaia gli istituti – asili nido, scuole dell’infanzia e primarie – che hanno deciso di applicarlo all’interno delle loro classi.

Dottor Novara, in cosa consiste esattamente il metodo “Litigare bene”?

Il cuore del metodo è un cambiamento antropologico e psicoevolutivo importante: si passa dall’idea di controllare i bimbi all’idea di utilizzare i loro comportamenti come situazioni di apprendimento. Bisogna fare due passi indietro e due avanti; prima di tutto non si deve cercare il colpevole nelle situazioni di conflitto né fornire una soluzione. Per contro, si deve chiedere ai bambini di parlarsi e comunicare, accettando poi il loro accordo, anche nel caso in cui inizialmente non dovesse esserci. Per favorire il dialogo, si possono usare alcuni stratagemmi.

Per esempio?

L’utilizzo di un gomitolo da passare dall’uno all’altro: chi ce l’ha in mano può parlare ed esprimere le proprie ragioni. Un altro elemento che abbiamo introdotto è il conflict corner, uno spazio che di solito nelle aule è un tavolinetto con due sedie, ma che può essere un tappetone o un angolo della casa, dove i bambini sanno che possono andare a gestire da soli le proprie contese. In alcune scuole dell’infanzia che utilizzano il metodo si creano addirittura delle piccole file per andare a parlare. Questa autonomia è meravigliosa: è quello che i genitori dovrebbero aspettarsi dai propri figli, che siano in grado di gestirsi da soli.

Il genitore o l’educatore quindi dovrebbe tendere a non essere più necessario?

In un certo senso. Ovviamente vanno poste delle regole molto basilari, per esempio che non ci si picchia e non ci si insulta; se c’è una situazione violenta si può intervenire per calmare i bimbi, ma poi bisogna lasciare che parlino tra loro, non con l’adulto.

si passa dall’idea di controllare i bimbi all’idea di utilizzare i loro comportamenti come situazioni di apprendimento.

L’autonomia, quindi, è fondamentale.

Assolutamente. Mi piace vedere il mio metodo come un omaggio all’ “Aiutami a fare da solo” di Maria Montessori, applicato a un settore che negli anni ‘50 non era nemmeno considerato, quello del conflitto. È una sorta di “Aiutami a litigare da solo con le mie risorse, non schiacciarmi”.

Ma se i bambini non trovano una soluzione al loro conflitto?

Il termine “soluzione” appartiene al mondo adulto, significa letteralmente che il conflitto si è sciolto. Per i bimbi, però, anche il litigio è una fase del gioco. Per i più piccoli si può parlare di accordo; se questo non viene trovato, smette però la contrapposizione. Nel momento in cui invece un accordo si trova, spesso li si sente dire “Ci siamo chiariti”. L’importante è fare comunicare i bambini, senza intervenire: il metodo è basato sulla decontrazione emotiva. Durante l’infanzia non si rimane arrabbiati, perché non si prova ancora rancore. Voler a tutti i costi imporre una soluzione non funziona.

Quali insegnamenti può dare imparare a “litigare bene”?

È una rivoluzione che ha conseguenze importanti. Imparare a confrontarsi è un antidoto alla violenza. Il segreto per evitare la guerra non è non avere mai disaccordi, ma saper gestire le contrarietà, in particolar modo quelle relazionali, con competenza e con l’attitudine giusta. I bambini con questo metodo imparano a vedere il punto di vista dell’altro, a cercare di far valere le proprie ragioni ascoltando anche le ragioni altrui. Permette anche di imparare il valore della rinuncia, di cercare altro rispetto, per esempio, al giocattolo oggetto di contesa.

Il conflitto, però, fa paura, anche agli adulti.

Da sei mesi tutto il sistema mediatico ci martella con la coincidenza tra conflitto e guerra. Le vicende drammatiche che stanno accadendo in Ucraina e in altre parti del mondo vengono chiamate conflitti esattamente come i disaccordi che capitano tra genitori e figli e questo crea angoscia. In realtà avere delle divergenze, a livello interpersonale, è sano, ma per molti è legato a un immaginario panicoso. Vedo molti ragazzi, al giorno d’oggi, che dicono a chi non è d’accordo con loro che gli sta facendo violenza; io questo lo trovo agghiacciante. Ci sono persone che non sanno cosa vuol dire confrontarsi con altri che abbiano opinioni diverse. Se non si impara a litigare bene, ma al contrario si evitano i litigi, si rischia di diventare delle mine vaganti per se stessi e per gli altri. Per questo dobbiamo insegnare ai bambini a comunicare, non attraverso una comunicazione emozionale, ma attraverso quella che noi chiamiamo una comunicazione maieutica.

Cioè?

Un tipo di comunicazione che non è basata sulla rabbia, ma sull’interesse e l’ascolto reciproco.

Vedo molti ragazzi, al giorno d’oggi, che dicono a chi non è d’accordo con loro che gli sta facendo violenza; io questo lo trovo agghiacciante. Ci sono persone che non sanno cosa vuol dire confrontarsi con altri che abbiano opinioni diverse. Se non si impara a litigare bene, ma al contrario si evitano i litigi, si rischia di diventare delle mine vaganti per se stessi e per gli altri.

A partire da quale età e fino a quando si può applicare il metodo?

Si può iniziare ad applicare a partire dall’ultimo anno di asilo nido, ma in quel caso si utilizzano solo i primi due passi, quelli all’indietro: non cercare il colpevole e non fornire una soluzione. Dalla scuola dell’infanzia, poi, si inizia a introdurre anche gli altri due punti. Nella preadolescenza e nell’adolescenza si raccoglie quanto seminato negli anni precedenti: se un genitore ha gestito bene i figli durante l’infanzia, non ha motivo di preoccuparsi anche dopo. I ragazzi a quest’età tirano fuori il peggio di sé perché non sono più controllabili come quando erano piccoli. Ma se la comunità educante agisce non con il controllo ma favorendo la gestione autonoma dei conflitti e delle contrarietà, è più difficile che sorgano dei problemi.

Quale evoluzione ha visto nel suo metodo in questi dieci anni?

Forse l’elemento principale è l’introduzione del conflict corner. Dieci anni, tuttavia, per un metodo di questo tipo, che va a lavorare su uno schema che accompagna la storia dei bambini da millenni – l’essere sgridati quando ci sono dei litigi – è molto poco. Vediamo però sempre più sensibilità a questi temi: lo dimostra l’interesse che sta creando il convegno che terremo il prossimo 31 agosto e il fatto che i miei libri, ora, sono diffusi nel mondo e a breve arriveranno addirittura in Cina. La nostra è un’idea che possiamo ancora definire pionieristica, ma vedo sempre meno genitori e insegnanti che puniscono i bambini perché tra loro nasce un conflitto e penso sia anche grazie al lavoro dell’istituto che dirigo, che in questi anni ha formato moltissime persone. Mi auguro che, tra vent’anni, far parlare i bimbi perché risolvano le controversie sia l’approccio normale.

Che adulti saranno i bambini con cui oggi è applicato il metodo “Litigare bene”?

Saranno adulti più sicuri di sé e avranno maggiore autostima. Saranno capaci di riconoscere le proprie competenze, di collaborare con gli altri e di ascoltarli, di non spaventarsi se qualcuno ha un’idea diversa dalla loro. Insomma, saranno persone in grado di orientarsi nel ginepraio delle differenze, sul lavoro, come in famiglia e nella coppia. Io dico spesso di non sposarsi con chi promette che non ci saranno litigi, ma con chi promette che ci saranno litigi, ma si cercherà di risolverli assieme.

Foto di Victoria Bordonova su Pixabay

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