Giustizia
Nordio vuole più detenuti in comunità? Ragioniamoci, ma non diventeremo micro-carceri private
Il Guardasigilli, con le dichiarazioni degli ultimi giorni e con il decreto diventato legge lo scorso 7 agosto, ha manifestato la necessità di coinvolgere il mondo delle comunità per ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari, per quanto riguarda i detenuti che devono scontare gli arresti domiciliari ma non hanno un proprio domicilio e quelli tossicodipendenti. Caterina Pozzi (Cnca): «La nostra paura più grande è che si vogliano creare piccoli penitenziari a gestione privata. Se è così ci opporremo»
Nelle sue recenti dichiarazioni, il ministro Carlo Nordio ha sostenuto di essere al lavoro per fare in modo che i detenuti senza un proprio domicilio, che hanno diritto agli arresti domiciliari, possano scontare la pena in comunità, per dare ossigeno alle carceri sempre più sovraffollate. Si tratta in larghissima di persone straniere.
Tra le novità introdotte nel disegno di legge approvato lo scorso 7 agosto, la maggiore possibilità per i detenuti tossicodipendenti di scontare la pena in comunità, con l’istituzione di un albo delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale, che sarà gestito dal ministero della Giustizia. Le comunità sono pronte ad accogliere migliaia di detenuti? Lo abbiamo chiesto a Caterina Pozzi, presidente Cnca, Coordinamento nazionale comunità accoglienti, che conta 240 organizzazioni associate che prendono in carico ogni anno 45mila persone.
Pozzi, cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Nordio, nelle quali ha affermato di essere al lavoro per poter fare in modo che possano essere ospitati in strutture i detenuti che hanno diritto agli arresti domiciliari, ma non possiedono un proprio domicilio?
Il ministro ha affermato che si sta lavorando per fare in modo che, per chi ha la possibilità di andare agli arresti domiciliari con una pena inferiore ad un anno, ma non ha un domicilio proprio, si possano trovare altri tipi di soluzioni. Sarebbe un bel passo, una cosa molto importante, spero che si verifichi in fretta. Noi siamo disponibili per ragionare con lui, ma quello che c’è oggi non basta. Nel decreto si parla della necessità di far uscire dal carcere delle persone con dipendenze, senza fissa dimora. E si ipotizzano strutture alternative. Ma in generale, senza specificare. Non si parla di tempi di realizzazione, si parla di sperimentazione. Ma non è facilissimo metter su delle sperimentazioni.
La rete delle vostre comunità accoglie già molti detenuti tossicodipendenti?
Nel 2023, nella rete delle nostre comunità, noi abbiamo accolto 400 persone tossicodipendenti dalle carceri. Nella nostra rete vengono già ospitate persone provenienti dagli istituti penitenziari e in misure alternative. Esiste già un sistema di servizi che va implementato. Non vanno create strutture parallele rispetto a quelle che già ci sono. Non bisogna chiedere al Terzo settore di creare micro-carceri private, non è fatto per questo ma per accogliere, accompagnare, inserire, emancipare le persone. Ci sono delle problematiche che vanno risolte.
Ce ne dica alcune.
«Noi di Cnca alla fine di luglio abbiamo scritto un documento in cui abbiamo analizzato il decreto cosiddetto “svuotacarceri”, ancora non era passato in Parlamento. Abbiamo sottolineato alcune attenzioni e criticità, con la disponibilità a fare la nostra parte. In alcune zone non ci sono sufficientemente soldi per inserire le persone in comunità. Oppure c’è il “collo di bottiglia” della magistratura di sorveglianza, per cui dei tempi si allungano. Ci sono delle persone che finiscono la pena in carcere pur avendo avuto l’ok di entrare in comunità, proprio perché non arriva in tempo il permesso definitivo.
Quali sono i principali dubbi che avete, riguardo al decreto?
Da una parte, ci chiediamo quanti soldi vanno a chi e da chi vengono gestiti? Dall’altra parte, bisogna superare il problema della lunga burocrazia: se non si supera quello, si verifica che ci sono più posti fuori dal carcere, ma non c’è una velocità di procedimenti perché le misure alternative al carcere possano davvero avere un’efficacia a breve termine. Un altro interrogativo è: quando nel decreto si parla di comunità, cosa ci si immagina?
Ci spieghi meglio.
Quando si parla della “costruzione di un registro regionale” a cosa ci si riferisce? Esiste già l’elenco delle strutture accreditate a livello regionale per accogliere persone tossicodipendenti e anche persone tossicodipendenti che vengono dal carcere. È un elenco con regole precise e 30 anni di storia, di qualità, di professionalità. Quando si fa riferimento a questo registro di cosa si parla? Quali strutture si immaginano? Delle comunità parallele a quelle già esistenti? Con quali parametri, con quali requisiti? Le dico qual è la nostra paura più grande.
Qual è la vostra paura più grande?
La nostra paura più grande è che si vogliano creare delle micro-carceri private, che si faccia un po’ come con i Cpr, i Centri di permanenza per i rimpatri, demandando a un privato. Più o meno competente? Più o meno conosciuto? Per noi è fondamentale una cosa.
Non bisogna chiedere al Terzo settore di creare micro carceri private, non è fatto per questo ma per accogliere, accompagnare, inserire, emancipare le persone
Quale?
Per noi è fondamentale che l’accoglienza delle persone che vengono dal carcere all’interno delle comunità parta, prima di tutto, dalla volontarietà delle persone che vogliono andare in comunità. Altra cosa fondamentale, le nostre comunità sono aperte. Accogliamo già persone provenienti dal carcere, in affidamento, ma sono, appunto, comunità aperte. Se devono diventare piccole carceri, questo non ci va bene per niente. È molto pericoloso. Sullo sfondo abbiamo l’immagine dei Cpr, di strutture nelle quali non sono presenti figure educative, ma figure più di controllo. Abbiamo scritto al ministro Nordio, riscriveremo.
Perché vi fate sentire?
Ci facciamo sentire perché vogliamo sicuramente dare il nostro contributo, ma vogliamo dire che non esistono solo le comunità.
Cosa si può fare?
Si possono fare progetti di housing, si può attivare tutta la rete territoriale: le cooperative sociali di inserimento lavorativo insieme agli enti locali. Facciamo un Tavolo in cui ci diciamo che ci sono le comunità, che requisiti devono avere, che esistono anche altre possibilità per le persone che non hanno un domicilio, che non possono andare agli arresti domiciliari e che hanno bisogno di percorsi anche di accompagnamento. Su questo decreto c’è un altro punto, che vorrei sottolineare.
Quale?
Nel decreto le figure educative, psicologiche, di accompagnamento all’interno delle carceri non sono state menzionate. Mentre è stato detto (ed è un bene) che verranno aumentate le figure della Polizia penitenziaria non è stato fatto cenno a queste altre figure, che sono fondamentali per far stare meglio le persone e per costruire e rafforzare il rapporto tra il dentro e il fuori, quindi per facilitare i percorsi di uscita. Abbiamo anche un altro timore.
Le comunità sono una tipologia di servizi che ha determinate caratteristiche che vanno preservate. Il rischio è anche di non trovare il personale, già carente
Qual è l’altro timore?
Che si parli di numeri piccolissimi. Se vogliamo svuotare le carceri e, quindi, renderle più vivibili, dobbiamo smetterla di risolvere problematiche sociali con strumenti penali: avremo sempre più persone che entrano rispetto a quelle che possono uscire. Se vogliamo davvero affrontare il tema del sovraffollamento dobbiamo ripristinare in maniera precisa i Tavoli territoriali, con tutte le realtà coinvolte nel tema carcere: il Terzo settore, l’ente locale, l’Asl, la magistratura di sorveglianza, l’istituto penale. E lì si ragiona sulle risorse economiche a disposizione, sulle priorità, sulle sperimentazioni. Questi presidi territoriali c’erano e sono andati sfilacciandosi.
Per quanto riguarda le risorse economiche?
Sono previsti cinque milioni di euro in più l’anno per le comunità di recupero per le persone tossicodipendenti e sette milioni di euro in più l’anno per queste sperimentazioni nuove. Ma parliamo di centinaia di persone, in entrambi i casi. Sono pochissimi. E poi chi li gestisce? I cinque milioni vanno ai SerD (Servizi per le dipendenze, ndr) oppure li gestisce il ministero della Giustizia? Vorrei dire che dovremmo anche fare un lavoro di diffusione di buone pratiche.
In che modo?
In alcune comunità della nostra rete, il 90% o il 100% delle persone tossicodipendenti provengono dalle carceri. Diffondiamo cultura, evitiamo di ripartire da zero creando delle strutture che, a nostro avviso, non funzionano e non servono. Ripeto, non si può chiedere alle comunità di diventare delle carceri. Le comunità sono una tipologia di servizi che ha determinate caratteristiche che vanno preservate. Il rischio è anche di non trovare il personale, già carente. In una grande crisi di reclutamento del personale che già c’è oggi nel nostro settore, se chiedi ad un educatore di fare il “secondino” a maggior ragione non è motivato. Si rischia di abbassare la qualità, se si è costretti a prendere persone senza titoli. Pensiamo sempre che stiamo parlando di persone con fragilità, che hanno bisogno di personale qualificato.
Voi del Cnca avete cambiato di recente nome. Ce ne può parlare?
Sì, da Coordinamento nazionale comunità di accoglienza il Cnca è diventato, da poco, Coordinamento nazionale comunità accoglienti. Da diversi anni ci stavamo ragionando, abbiamo voluto segnare sempre di più un’urgenza e un riferimento valoriale. Il nostro lavoro sono le comunità, i territori, sono soprattutto le cittadine e i cittadini più fragili, che vivono nei territori in special modo quelli più fragili. In una logica in cui abbiamo costruito un welfare, più o meno strutturato, con dei servizi anche di qualità, dobbiamo tornare ad avere uno sguardo dentro i territori. Quindi vogliamo sottolineare quanto sia necessario costruire comunità e territori accoglienti. Non ci bastano più le comunità di accoglienza da cui siamo partiti, ma vogliamo ritornare a costruire, cucire, connettere relazioni significative che facciano vivere meglio tutte e tutti, soprattutto le persone più fragili, all’interno dei territori in cui viviamo.
Foto di apertura di Stefano Carofei/Sintesi. Altre foto di Cnca
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