Cultura

Non tutto è merce

Il capitale spirituale della persona, e quindi delle famiglie, delle comunità, delle scuole, delle imprese, è sempre stato la prima forma della ricchezza delle nazioni

di Luigino Bruni

Stanno aumentando le povertà “cattive” e diminuendo quelle “buone”. Ci stiamo impoverendo velocemente e male perché il deterioramento dei nostri capitali civili, educativi, relazionali, spirituali, pubblici ha superato un punto critico, innescando una reazione a catena. Il nostro è un declino capitale. Le povertà che oggi sappiamo misurare si manifestano come carestie di flussi (lavoro, reddito), ma in realtà sono l’espressione di processi “in conto capitale” molto più profondi e di lungo periodo, che dipendono poco dalla crisi finanziaria del 2007-08, o dalle politiche della Germania – i nostri soliti, e ormai stucchevoli, alibi, che eclissano le vere ragioni di quanto di serio ci sta accadendo. Sono ormai in tanti a denunciare che dietro il nostro declino ci sono la carenza e il deterioramento di capitali produttivi, tecnologici, ambientali, infrastrutturali, istituzionali. Verità sacrosanta. Non si dice, però, che la crisi di questi capitali cruciali per lo sviluppo economico dipende in massima parte dall’aver consumato forme di capitali più fondamentali (morali, civili, spirituali), quelli che hanno generato economia, industria, civiltà. L’industria, e prima le culture contadine, marinare, artigiane dell’Europa, sono state generate da un intero umanesimo, un processo durato secoli, millenni.

La nostra rivoluzione economica, e quindi civile, non nacque dal nulla, ma fu la fioritura di un albero secolare, con radici profonde e fecondissime. Non dobbiamo dimenticare che le nostre buone classi imprenditoriali sono state l’evoluzione di decine di migliaia di mezzadri, di contadini, di artigiani che già proto-imprenditori lo divennero in modo nuovo e su più vasta scala. Come non dovremmo dimenticare che ci furono altri elementi decisivi per i nostri “miracoli” economici e civili: l’istruzione obbligatoria, l’emigrazione interna, e un “consumo” enorme, quasi infinito, di lavoro relazionale e domestico femminile non remunerato, che non entrava nei costi aziendali, ma che di certo aumentava i ricavi e i profitti di quelle imprese. Dovremmo poi, ogni tanto, ricordare che dietro la “questione meridionale”, ancora aperta e a tratti tragica (basta guardare i dati sulla disoccupazione o sull’abbandono scolastico), ci sono precise scelte politiche relative ai tipi di capitali su cui investire. Si pensò, e si pensa ancora, che fossero cruciali i capitali industriali e finanziari (la Cassa del Mezzogiorno); ma non facemmo abbastanza per diffondere in quelle regioni le cooperative o le casse rurali. Portare la fabbrica era senz’altro una via di civilizzazione (portarvi, più tardi, i rifiuti tossici no); ma assieme a questi capitali sarebbe stata necessaria una grande azione politica di sviluppo di cultura e prassi cooperative, che avrebbe consentito lo sviluppo di capitali civili. Non credo che i siciliani abbiano un’antropologia diversa dei trentini, e che quindi siano per natura culturale incapaci di cooperare (o capaci soltanto di cooperazione sbagliate); ho sempre pensato, invece, che mentre tra Otto e Novecento i parroci, i politici, i sindacalisti del Trentino davano vita a casse rurali, a cooperative e a centrali cooperative, i loro colleghi del Sud facevano altro (complice la politica nazionale), e soprattutto facevano in modo che alcune grandi e luminose figure (come quella di don Luigi Sturzo) restassero stelle chiare di un’alba che non divenne giorno.

I flussi economici nascono prima da capitali morali e civili, che diventano poi capitali industriali, e quindi lavoro, reddito, ricchezza. Proviamo ad immaginare come sarebbe oggi l’Italia, e in un certo senso l’Europa del Sud, se nel Novecento i grandi partiti, la politica nazionale, la stessa Chiesa avessero profuso il massimo impegno anche per la diffusione capillare nel Sud del movimento cooperativo nel consumo, nel credito, nell’agricoltura, accompagnato da programmi scolastici e di apprendistato adeguati. Alla storia servono poco i “se” e i “ma”, ma al presente servono, e molto. Se ripartiremo, la leva per risollevarci sarà poggiata nel Sud, dove giacciono troppe potenzialità, anche economiche, ancora inespresse, troppe ferite civili che aspettano di diventare benedizioni.

C’è un’altra forma decisiva di capitale in rapido deterioramento. L’economia di mercato nel Novecento è stata generata anche da un grande patrimonio spirituale ed etico fatto da milioni di donne e di uomini educati e abituati alla sofferenza, al travaglio del lavoro, alle carestie della vita e della storia, alle guerre, persone capaci di fortezza e di resilienza di fronte alle ferite buone e cattive. Un’immensa energia spirituale e civile che era cresciuta e maturata nei secoli da un terreno fecondato dalla pietà cristiana, dalla fede semplice ma vera del popolo, e anche dalle ideologie, che erano state spesso capaci di offrire un orizzonte più grande dell’asprezza del quotidiano. C’era anche questo “spirito” popolare dentro il nostro capitalismo buono. Il capitale spirituale della persona, e quindi delle famiglie, delle comunità, delle scuole, delle imprese, è sempre stato la prima forma della ricchezza delle nazioni. Una persona, o un popolo, continua a vivere e non implode durante le crisi finché ha capitali spirituali cui attingere. Non muore finché nei tempi della notte sa andare dentro l’anima propria e del mondo e trovarci qualcosa, qualcuno, cui aggrapparsi per ricominciare. Non si riesce a dar vita a un’impresa, a trovare le risorse morali di avventurarsi in cammini rischiosi per sé e per gli altri, a convivere con le sospensioni, con le avversità e la sventura di cui è composta la vita imprenditoriale, senza capitali spirituali personali e comunitari. Quali capitali spirituali, antichi e nuovi, stiamo donando, creando nelle nuove generazioni? Stiamo dotando i giovani, e tutti noi, di risorse spirituali per le tappe cruciali dell’esistenza? Quando abbassano gli occhi dentro, vi trovano qualcosa capace di far rialzare lo sguardo? Se non troviamo una nuova-antica fondazione spirituale dell’Occidente, la depressione sarà la peste del XXI secolo. I segnali di fragilità dell’attuale generazione di giovani-adulti dicono molto, dovremmo solo ascoltarli di più.

È allora un’esigenza primaria di Bene comune riuscire a dare vita a una nuova stagione di alfabetizzazione spirituale delle masse, con tutti i mezzi (compreso il web), e in tutti i luoghi (compresi i mercati, le piazze, le imprese). La domanda di questo “bene”, ancora in buona parte latente e potenziale, è immensa. Ma occorre saperla ritracciare proprio nel vuoto di spiritualità che (sembra) dominare la nostra era – fare come quell’imprenditore di calzature che di fronte al report sconsolato (<Qui sono tutti scalzi>) dell’agente inviato in un Paese lontano, esclamò: <Ci si apre un mercato immenso>. Siamo di fronte a un passaggio decisivo, questo sì davvero epocale: se la domanda di beni spirituali non incontrerà una nuova “offerta” da parte delle grandi e millenarie tradizioni religiose, che hanno patrimoni fecondi capaci di produrre nuovi beni spirituali donati oggi con nuovi linguaggi vitali e comprensibili, sarà il mercato a offrire e vendere spiritualità, trasformandola in merci (sta già accadendo: vedi il moltiplicarsi dei settari cialtroni for-profit). E il rimedio sarà stato peggiore del male.

Avvenire 3/11/2013

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