Chiedo venia ai lettori di questo Blog se, a volte, interrompo la scrittura rispetto alle vicende africane. In effetti, riuscire a seguire gli eventi di questo grande continente non è semplice. Ecco che allora avverto, di tanto in tanto, il bisogno istintivo di essere silente per provare a discernere i mutamenti che si verificano in Africa. Mutamenti, tengo a precisarlo, spesso contraddittori. Ad esempio, l’evidente crescita economica dei Paesi africani (con un tasso medio annuo superiore al 5%), dovuta in gran parte ai massicci investimenti cinesi, è in contrasto con i dati forniti dall’Unicef secondo cui 18mila bambini al giorno muoiono prima dei 5 anni nell’Africa Sub Sahariana, raggiungendo così la più alta percentuale di mortalità infantile a livello planetario. Con un tasso di 98 morti ogni 1000 nati, un bambino venuto alla luce nell’Africa Sub Sahariana corre un rischio 16 volte maggiore di spegnersi per inedia e pandemie prima del suo quinto compleanno, rispetto ad un minore nato in un Paese ad alto reddito. Per carità, in questi anni, qualche progresso è stato registrato, ma il cammino è ancora tutto in salita. Ci si chiede, allora, se con il pretesto suggestivo o la forza evocativa di un “Prodotto interno lordo” (Pil) in ascesa a tutti i costi, non si offra l’ultima discolpa ad un presunto sviluppo che, operando indiscriminatamente secondo il principio della massimizzazione dei profitti, paradossalmente, determina isolamento e negazione tra i ceti meno abbienti. Questi esclusi, definiti dalle imprese “manodopera a basso costo”, rappresentano, ancora oggi, la maggioranza della popolazione di un continente bisognoso di riscatto. Ecco che allora l’assioma “Trade not Aid” (“Commercio non Aiuto”), di clintoniana memoria, ha fatto sì che fosse drasticamente smantellata ogni forma di aiuto ai contadini delle nazioni povere. Urgono, pertanto, politiche pubbliche solidali, investimenti prioritari e azioni illuminate per affrontare le cause principali, non solo della mortalità infantile, ma del sottosviluppo in generale. Sta di fatto che in Africa, non solo si continuano a registrare numerosi conflitti – basti pensare alla Somalia, alla Repubblica Democratica del Congo, per non parlare del Darfur o della Repubblica Centrafricana – o croniche carestie come nel Sahel o nel Corno d’Africa, ma vi è soprattutto un evidente fenomeno di impoverimento strutturale. Basti pensare, ad esempio, al “land grabbing”, vale a dire all’accaparramento indiscriminato dei terreni, poco importa se foreste pluviali o sconfinate savane, operato negligentemente dalle compagnie straniere, con la conseguente svendita delle risorse minerarie e agricole di molti Paesi come la Sierra Leone o la Liberia. Nel frattempo, la questione debitoria e tutt’altro che risolta per le inadempienze dei governi a livello di bilancio e le dinamiche speculative imposte da un mercato finanziario fortemente volatile. Andando, allora, al di là del pregiudizio mortifero imposto dalla Storia, secondo cui essa non è mai stata capace di includere tutti i suoi soggetti o di totalizzare la sua materia sociale, servono interventi strategici verso sanità, istruzione e infrastrutture, garantendo benefici a lungo termine per le popolazioni autoctone. A questo proposito, la società civile (associazioni, gruppi umanitari, chiese cristiane…) invoca una revisione delle intese, relativamente ad ogni settore imprenditoriale, con previa analisi pubblica dettagliata circa le risorse da sfruttare. La posta in gioco è alta, non foss’altro perché il fenomeno migratorio, che tanto preoccupa le diplomazie europee, ha questa genesi, solitamente ignorata nelle analisi circostanziali. È vero, l’Africa non può piangersi addosso e l’avvertimento di “rimboccarsi le maniche”, lanciato da molti intellettuali africani come la sociologa camerunese Axelle Kabou, almeno finora, non è stato sufficientemente recepito, soprattutto da parte delle classi dirigenti locali. Molti presidenti che avrebbero dovuto segnare il passaggio a una nuova mentalità politica hanno fallito. Non solo: certe pratiche tradizionali, come ad esempio quella della circoncisione femminile, legittimata da alcune culture, rappresentano un impedimento allo sviluppo in non pochi Paesi. Ciò non toglie, che le responsabilità dei colonialisti di ieri e di oggi sono sotto il cielo africano da mattina a sera.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.