Stranieri
Non si trovano lavoratori. Colpa anche dei centri per l’impiego
Chi vuole assumere una persona non comunitaria residente all'estero deve prima presentare al centro per l'impiego una richiesta di personale, per verificare l’eventuale disponibilità in Italia di lavoratori con le caratteristiche desiderate. «Per cosa? Per niente. Le imprese che presentano richiesta già conoscono il lavoratore o i lavoratori che vorrebbero assumere», osserva Marco Leonardi, professore di Economia Politica all’Università di Milano e Consigliere di Amministrazione di Afol Metropolitana
Decrescita demografica, bomba previdenziale, difficoltà delle imprese a trovare candidati. La crescita economica post-pandemica sembra in Italia avere trovato un muro che non c’è in altri Paesi. È vero che siamo cresciuti più degli altri nel 2021 e nel 2022, anche per la tutela dei posti di lavoro garantita dalla cassa Covid, che ci ha permesso di cavalcare la ripresa con tutti i nostri asset al loro posto. Eppure il 2023 segna un cambiamento: abbiamo rallentato e altri no. Ci ha superato la Spagna: per il 2024 Bankitalia prevede una crescita dello 0,6%, mentre in Spagna oltre il 2%. Eppure la combinazione di inflazione, crisi energetica, aumento dei tassi di interesse ha colpito tutti. Dove sta l’inghippo?
«Stiamo perdendo abitanti, e dunque consumatori, ma soprattutto lavoratori. Il grande polmone del lavoro degli stranieri in Italia non funziona più. Sono scelte politiche, a cui aggiungiamo un pizzico di follia tutta italiana», osserva Marco Leonardi, professore di Economia Politica all’Università di Milano e Consigliere di Amministrazione di Afol Metropolitana, Azienda speciale che gestisce i Centri per l’Impiego della Città Metropolitana.
Il Decreto del presidente del consiglio dei ministri del 27 settembre 2023 definisce i criteri per determinare i flussi di ingresso in Italia di lavoratrici e lavoratori stranieri per il triennio 2023-2025. Saranno ammessi in Italia complessivamente 452mila cittadini stranieri, per motivi di lavoro subordinato, stagionale e non stagionale, e di lavoro autonomo.
Già sui numeri complessivi dovremmo porci domande, ma stringiamo il nostro zoom su una postilla al decreto. Coloro che intendono assumere una persona non comunitaria residente all’estero devono preliminarmente presentare al centro per l’impiego competente una richiesta di personale, per verificare l’eventuale disponibilità in Italia di lavoratori con le caratteristiche desiderate. «In una congiuntura in cui è difficile, se non impossibile trovare candidati in casa nostra, si chiede a servizi pubblici di dedicare tempo e lavoro per una ricerca che si sa impossibile».
Marco Leonardi spiega il meccanismo in questa intervista.
Professor Leonardi, come funziona questa procedura?
È un po’ macchinosa. Provo a semplificare. L’impresa che intende assumere un lavoratore straniero residente all’estero, deve richiedere nulla osta al lavoro allo Sportello Unico per l’Immigrazione. Ma prima deve verificare, presso il competente Centro per l’Impiego, l’indisponibilità di lavoratori già presenti sul territorio nazionale. Ora, quando si intende verificata tale ipotesi? Quando il Centro per l’Impiego non trova nessuno entro 15 giorni dalla richiesta, quando le persone trovate dal Centro per l’Impiego non sono giudicate idonee dal datore di lavoro, quando le persone segnalate dal Centro per l’Impiego non si presentano ai colloqui.
Come valuta questa procedura?
Credo che non ci sia certo da argomentare sull’opportunità o meno di creare vincoli burocratici per l’ingresso di forza lavoro di cui abbiamo estremo bisogno. Ma questa regolamentazione sembra abbia poco senso. La realtà dei fatti ci dice che le imprese che presentano richiesta già conoscono il lavoratore o i lavoratori che vorrebbero assumere. In Afol abbiamo individuato degli “aggregatori”, associazioni di imprese a volte di natura etnica o nazionale, con cui siamo in contatto e che facilitano le procedure a favore delle aziende associate. Questo significa che i Centri per l’Impiego sono chiamati a un lavoro inutile e dispendioso. I tempi della ricerca sono troppo stretti per essere efficaci, ma non è questo il punto.
Qual è?
Quando anche i servizi riescono a trovare candidati, le imprese li rifiutano come inidonei e ne hanno facoltà. Peraltro sembra anche una presa in giro per le persone fiduciose che si presentano in cerca di occupazione. Infine è un inutile spreco di risorse. Le faccio l’esempio di Milano. In un anno standard i CPI gestiscono dalle 2.500 alle 3mila ricerche da parte delle aziende e fatichiamo a trovare persone adatte. Ma con le richieste associate al decreto flussi siamo passati a oltre diecimila pratiche. A organico invariato. E non è un lavoro da poco: si tratta di raccogliere le richieste delle aziende, pubblicare le vacancy, raccogliere le candidature, verificare i requisiti, segnalare le persone alle aziende. Per cosa? Per niente. Una montagna di pratiche e una procedura completamente inutile. Immagini anche la motivazione degli operatori a fare questo lavoro.
Si tratta di raccogliere le richieste delle aziende, pubblicare le vacancy, raccogliere le candidature, verificare i requisiti, segnalare le persone alle aziende. Per cosa? Per niente. Una montagna di pratiche e una procedura completamente inutile
Marco Leonardi, professore all’Università di Milano
Dai dati presentati da Unioncamere, solo tra febbraio e aprile 2024 le nostre imprese hanno bisogno di 24.450 fonditori, saldatori, lattonieri e carpentieri: il 70% non si trova; 29.190 meccanici artigianali, montatori, riparatori e manutentori: difficoltà a trovarne il 69,8%; come il 62,9% dei 18.090 operai specializzati richiesti e il 62,3% dei 66.320 autisti necessari. Nella ristorazione servono 178.460 camerieri e baristi: il 56,8% manca. E il lungo elenco continua con il personale nei servizi di pulizia, costruzioni, manifattura, commessi, ecc. I richiedenti asilo (80 mila ogni anno) e i migranti sono una risorsa, ma l’Italia rinuncia a formarli. ll Corriere della Sera scriveva che “La legge non ha mai previsto che nei centri di prima accoglienza ci fossero programmi per l’inserimento lavorativo”. Potrebbe commentare?
I numeri si commentano da soli. Le aggiungo che quegli 80mila non sono tutti braccianti agricoli. Non dobbiamo cadere vittima del pregiudizio che i migranti non abbiano competenze e siano da formare. Abbiamo gestito il picco di richiedenti asilo da Siria, Afghanistan e Ucraina in questi anni e si trattava in larga parte di persone qualificate che avrebbero potuto inserirsi velocemente al lavoro. Sull’Ucraina ci sarebbe un discorso a parte, il flusso è stato soprattutto di donne che non avevano un progetto migratorio di lunga durata, per le quali è opportuno prevedere servizi di assistenza e accompagnamento. Poi guardi, ci sono problemi complessi da affrontare.
Non dobbiamo cadere vittima del pregiudizio che i migranti non abbiano competenze e siano da formare
Marco Leonardi
Quali?
C’è il problema della casa, ma anche dell’urgenza di trovare un salario anche solo di sussistenza. Le persone non hanno tempo o voglia di seguire percorsi formativi, vogliono e devono lavorare subito. C’è il tema del riconoscimento reciproco dei titoli di studio, su cui sta facendo un gran lavoro CIMEA, ma le richieste sono molte e potenzialmente potrebbero essere molte di più, mentre le risorse per trattarle poche dunque i tempi di allungano. Quindi i programmi di inserimento lavorativo sarebbero necessari sì, ma con percorsi formativi sulla lingua italiana, con servizi al lavoro, con sostegno per l’abitare, con il riconoscimento dei titoli o la conversione delle qualifiche, anche attraverso integrazione di moduli professionalizzanti. Ma sempre considerando che la percezione del tempo per queste persone è diversa: c’è un’urgenza di integrazione dovuta al fatto che si tratta di persone che non hanno nulla, che hanno lasciato tutto nel loro paese e devono ricostruirsi la vita da capo, pur con la responsabilità, spesso, di una famiglia, vissuti traumatici e la preoccupazione per chi è rimasto a casa.
Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay
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