Non sempre gli altri sono meglio

di Gianfranco Marocchi

Molti mezzi di informazione ( tra cui Vita e molti quotidiani generalistici) hanno dedicato attenzione al referendum svoltosi una decina di giorni fa in Svizzera teso a introdurre limitazioni e forme di controllo da parte degli azionisti circa le retribuzioni dei manager d’impresa; anche la Commissione Europea sta considerando misure tese a regolamentare in senso restrittivo retribuzioni e liquidazioni per i vertici delle società quotate.

Non che il tema nel nostro Paese sia intempestivo: è noto che il differenziale salariale tra dirigenti e lavoratori è tra i più alti al mondo e sono stati più volte segnalati casi di retribuzioni o liquidazioni spropositate anche in casi di aziende con andamenti economici disastrosi.

Parallelamente, nel nostro piccolo mondo, in questi ultimi mesi si è sviluppato un dibattito sulla equità della retribuzione dei dirigenti di organizzazioni non profit; tra i tanti che ne hanno parlato, due amici come Marco Crescenzi e Federico Marcon nei loro blog su Il Fatto Quotidiano, una ricerca condotta da Sodalitas, un recente numero di Vita riportando argomentazioni sviluppate in questi anni da Valerio Melandri e molti altri.

Nella diversità delle posizioni sopra citate e di tante altre, mi pare di cogliere una tendenza, riassumibile nella convinzione che – per pauperismo o per impreparazione, per scelta o per condanna – la minor retribuzione dei dirigenti delle organizzazioni non profit costituisca un limite, una svalutazione, un provincialismo, proprio soprattutto del nostro Paese (non a caso si citano casi anglosassoni dove la situazione è diversa), che va superato.

Però, penso io: lasciamo pure da parte il pauperismo, ma tutte le riflessioni economiche e organizzative di questi vent’anni?

Penso ad esempioa i lavori prima di Issan e poi di Euricse, a partire dal “capostipite” Capitale umano e qualità del lavoro nei servizi sociali. Un ‘analisi comparata tra modelli di gestione, pubblicato da FIVOL nel lontano 2000 e curato da Carlo Borzaga, da cui si sono poi sviluppati innumerevoli paper e ricerche, dove, accanto ai ragionamenti sulle componenti non monetarie della retribuzione, si sottolineava la valenza dell’equità percepita come componente rilevante del clima organizzativo; dove, in sostanza, si evidenziava come la compressione dei differenziali retributivi tra lavoratori e dirigenti – e quidi la percezione che, anche quando la vita è dura, nessuno ci ruba e tutti condividono le difficoltà – contribuisse a innalzare la soddisfazione e la fidelizzazione dei lavoratori, creare coesione organizzativa e quindi a migliorare le prestazioni dell’organizzazione. E, dal punto di vista economico,al le molteplici indagini che hanno messo in luce il ruolo che il contenimento delle retribuzioni dirigenziali ha avuto nell’assicurare per almeno un ventennio i margini di redditività che hanno a loro volta alimentato il patrimonio (di organizzazioni di per sé generalmente composte, mi si passi la semplificazione, di poveracci privi di capitale) e quindi hanno costituito un pre requisito necessario per lo sviluppo della cooperazione sociale e per i suoi 15 mila posti di lavoro all’anno in più.

E ancora – anche se su questo mancano riscontri scientifici – sarebbe interessante riflettere sul fatto che, se da una parte questo stile organizzativo può avere allontanato risorse professionali potenzialmente preziose, dall’altro ha limitato (anche se non evitato) il rischio che un fenomeno in forte ascesa fosse cavalcato da dirigenti pronti a portare per proprio tornaconto economico l’impresa in direzioni estranee alla propria mission.

Queste considerazioni non risolvono ovviamente la questione soggettiva (ci saranno ancora dirigenti disponibili ad impegnarsi prendendo meno soldi?), ma costituiscono un aspetto organizzativo non indifferente. E rappresentano elementi non residuali nel successo che ha consentito un lungo periodo di espansione al terzo settore italiano, nonché la sua resistenza alla crisi documentata da ricerche come quella recente del Censis.

Non si tratta allora di pauperismo, ma di sottolineare come determinati stili organizzativi – di cui i modelli retributivi e distributivi del valore prodotto sono parte integrante – si siano dimostrati vincenti; e sembra paradossale che, mentre – forse grazie alla crisi – nel resto del mondo si avvia una riflessione che implicitamente riconosce le virtù di questo modello, proprio all’interno del mondo del non profit si senta il fascino dell’omologazione. Insomma, un segno della subalternità culturale che in questi mesi sta caratterizzando il terzo settore italiano, che avrebbe invece l’occasione per entrare con forza in questo dibattito mostrando come il proprio modello, pur con mille limiti, descrive uno stile di leadership di cui il sistema economico avrebbe molto da imparare.

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