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Non può esistere un’Italia senza campanili
Le comunità hanno bisogno di simboli e rituali civici per sopravvivere. Ecco perché la questione della ricostruzione dei campanili non va sottovalutata. Lo si fece anche a Venezia, quando nel 1902 crollò quello di San Marco. «Ricostruire dov'era, com'era», fu la parola d'ordine
di Marco Dotti
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Quello del Santuario di Santa Maria in Via, a Camerino, non c'è più. Distrutto dal sisma. Quello di Castelluccio di Norcia è danneggiato, in maniera forse irreparabile. A quello di Visso, miracolosamente in piedi, si aggrappa la speranza dei mille abitanti del comune marchigiano.«Il campanile della chiesa ha resistito, quello è il simbolo di Visso e se ha retto lui abbiamo il dovere morale di non essere da meno come comunità», dichiara il sindaco Giulio Pazzaglini.
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A chi nei giorni scorsi ha sostenuto e scritto – certi intelletttuali italiani sono capaci di bassezze inenarrabili – che non è poi così male veder cadere chiese e cattedrali, non c'è molto da rispondere. Nei fatti, una collettività ha sempre bisogno di simboli di unità, che siano chiese o piazze poco importa, purché siano simboli materiali o luoghi che, nel momento del pericolo, la sappiano tenere più unita che mai. I campanili dei piccoli borghi delll'Italia centrale sono al tempo stesso la prova e la speranza di ciò che è e di ciò che potrà essere una comunità di destino coesa attorno alle proprie radici e alla propria sorte.
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Quando si dice che «tutto deve essere ricostruito» è a queste radici profonde che si parla. Ma quando si dice «ricostruire dov'era, com'era», pochi ricordano che si tratta di un'espressione nata proprio dal crollo di un campanile. E non un campanile qualsiasi. Parliamo di quello di San Marco a Venezia che andò, letteralmente, in frantumi la mattina del 14 luglio 1902. Non un terremoto, ma l'incuria fu allora la causa del crollo.
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La stampa internazionale, non meno dell'opinione pubblica, fu quasi unanime. Le Figaro di Parigi invitò tutti gli appassionati d’arte a concorrere alla ricostruzione inviando donazioni. Il Lueger di Vienna espresse in una lettera rivolta al sindaco di Venezia, il cordoglio e la commozione degli austriaci per l'accaduto. Il Daily News, come lo stesso Corriere della Sera, aprirono una sottoscrizione tra i lettori.
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Il londinese Daily Express ritenne invece che piazza San Marco fosse molto più bella senza il campanile. Ma alla fine, come ovvio, prevalse la necessità di ricostruire e di ricostruire in fretta. Perché? Perché quel campanile era un simbolo, non solo un'opera di immenso valore. Così come simboli sono i campanili di Castelluccio di Norcia, di Camerino, di Penna San Giovanni, di Carpineto. Di simboli, in quest'epoca di smaterializzazioni a oltranza e di pseudo-piazze virtuali, abbiamo disperatamente bisogno per legare ciò che è spezzato, diviso, rotto.
Riunire ciò che è spezzato, d'altronde, è nella natura stessa del simbolo. Nell'antica Grecia, la parola symbolon indicava infatti un oggetto tagliato in due i cui possessori conservavano una metà allo scopo di riconoscersi o di riconoscerne i portatori così da avere la prova delle loro relazioni di amicizia o di ospitalità. Scriveva a tal proposito Friedrich Creuzer: «Una tradizione antichissima, considerata sacra anche in Grecia, consisteva nello spezzare una tavoletta e nel conservare le due unità separate come pegno e segno di un diritto di ospitalità concluso. Quel frammento della tavola spezzata (tessera) veniva chiamato proprio simbolo (symbolon). La parola non si arrestò a quel tipo di accordo, e abbracciò tutte le relazioni che si ratificavano attraverso un segno visibile». Un segno visibile di quella comunità che non può, non vuole, non deve sparire.
Immagine in copertina: La statua di S. Benedetto nel centro di Norcia (Foto di Alberto Pizzoli/Afp/Getty Images)