Pensavamo fossero i più laici, i più aperti alle nuove fenomenologie dell’impresa sociale. Senza fissare troppi paletti con settori di attività, vincoli alla distribuzione degli utili, assetti di governance partecipati, ecc. E invece anche loro, quei liberal degli inglesi, hanno aperto un confronto piuttosto acceso sulla definizione di impresa sociale e, a cascata, sulla quantificazione del comparto. “We must to have a clear definition” affermano perentori quelli della Social Enterprise Coalition. Perché fra le 62mila organizzazioni recentemente censite dall’Office for Civil Society ve ne sono molte, secondo loro, che sono del tutto assimilabili a imprese for profit. La coalizione ne approfitta così per rilanciare l’iniziativa del Social Enterprise Mark, grazie alla quale riconoscere e far emergere le “vere” (e si spera anche, le migliori) imprese sociali. Anche la ricerca si mobilita. Qualche tempo fa il governo inglese ha finanziato la nascita di un importante centro di ricerca sul terzo settore che ora ridimensiona pesantemente proprio i dati di fonte governativa. Almeno il 90% non sono assimilabili a organizzazioni d’impresa sociale perché, e qui viene il bello, non sono soggette ad alcun vincolo rispetto alla destinazione degli utili. E così i soggetti di terzo settore con una consistente dimensione produttiva (almeno la metà delle loro reddito ricavato da transazioni di mercato) non sarebbero più di 16mila e almeno la metà di questi sono charities. Ritorno all’ordine dopo aver allargato troppo i confini? Difesa di rendite di posizione rispetto ad un governo che spinge per un deciso allargamento del settore (in ambito sanitario, ad esempio)? Un dibattito tutto da seguire, in attesa che anche in Italia qualcosa, anche di piccolo, si muova.
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