Cinema

Ma non pensate che l’adozione sia quella di “Vittoria”

Abbiamo chiesto a Daniela Russo del Ciai un commento su "Vittoria". «Un film intenso ed emozionante, ma il percorso adottivo non è quello raccontato e non deve esserlo. Andiamo a vederlo, ma evitiamo di dire che è un film sull’adozione», dice

di Sara De Carli

«Sei stata magnanima a parlare di amore, la parola giusta era ossessione»: così mi ha scritto un amico, papà adottivo, dopo aver letto su VITA l’articolo su Vittoria. Il film racconta l’adozione di una bimba bielorussa da parte di Jasmine e Rino. Un film che emoziona, ma che nella esplicita centratura sulla potenza della storia, sul “cuore” e sul desiderio di un figlio, finisce per restituire un’idea molto approssimativa (anzi, a tratti proprio errata) del percorso adottivo e delle motivazioni con cui intraprenderlo. Nel film, ha chiarito Marilena Amato – è sua la storia a cui Vittoria si è ispirato, oltre che attrice protagonista del film – ci sono ovviamente elementi di finzione, funzionali alla narrazione. Né il film aveva l’obiettivo o il desiderio di presentare “l’adozione”, ha detto Alessandro Cassigoli, uno dei due registi:  «Non volevamo raccontare il percorso adottivo, ma alcuni momenti e alcune sensazioni. Il punto nostro in particolare era restituire la magia dell’incontro e credo che nella scena finale ci siamo riusciti». 

Eppure, in chi lo vedrà, questa storia singola contribuirà inevitabilmente a dare forma a un immaginario sull’adozione interenazionale tout court: questo fanno i film, i libri, le storie. Potrà confermare stereotipi e timori, alimentare aspettative per percorsi più semplici di quelli che si verificano nella realtà, far pensare tutto quel lavoro su se stessi e sulle proprie motivazioni all’adozione che tanto invece sono importanti nell’iter adottivo, sia solo una cosa che sta sullo sfondo. Insomma, dicevamo, un film che farà discutere. Abbiamo chiesto a Daniela Russo, che è responsabile delle adozioni internazionali e del Ciaipe-Centro Psicologico ed Educativo di Ciai.

L’adozione per un desiderio di avere la figlia femmina, la poca condivisione con il marito, il sotterfugio per la firma della nonna, il percorso con l’ente pressoché inesistente… Uso la stessa espressione che ho usato con la protagonista e con il regista: sembra “tutto sbagliato” rispetto all’adozione. Quali sono state le sue reazioni da “addetta ai lavori”, vedendo il film? 

È vero, per quanto riguarda l’adozione è proprio “tutto sbagliato”. Ma il film colpisce, cattura e coinvolge per molti altri motivi. Non vogliamo assolutamente “bocciare” il film, anzi invitiamo ad andarlo a vedere. Evitiamo solo di dire che è un film sull’adozione. D’altronde questo lo hanno detto chiaramente nell’intervista a VITA anche il regista e la stessa Jasmine.

L’impatto emotivo è molto forte. Cosa vi è piaciuto? Partiamo da qui.

Il fatto che sia vero a partire dalla protagonista, che non è un’attrice ma la donna che ha vissuto in prima persona questa storia. Questo è sicuramente l’aspetto che nel film emerge maggiormente. La “verità” che il film è in grado di trasmettere, l’intensità emotiva che aggancia lo spettatore fin dall’inizio e che lo fa entrare nella storia. Nel finale, poi, sfido chiunque a non emozionarsi. Intesi gli sguardi, calibrate le pause, lo stesso dipanarsi della storia è estremamente coinvolgente.

«Abbiamo tutto?!? Tu hai tutto, io non ho niente: me la vado a piglià». È una frase fortissima questa che la protagonista dice al marito, che inizialmente non condivide la scelta di avviare il percorso adottivo: che riflessioni suscita?

Riporta immediatamente ad uno dei primi aspetti che, nel film, stridono con il senso stesso dell’adozione. L’adozione è “mettersi a disposizione” di qualcuno a cui manca qualcosa, non andarsi a prendere qualcosa che ci manca, ponendosi con un atteggiamento di “pretesa o di diritto”.


Nei percorsi adottivi si mette lavora molto sul desiderio, la motivazione, il bambino immaginario e il bambino reale, il tema dell’allargare la disponibilità. Come se fosse tutto un cesellare e passare al crogiolo e purificare il puro e semplice “vogliamo un figlio/vogliamo essere padre/madre”. Questo film va dritto per la strada del desiderio che forse rischia di diventare un diritto…

Va anche oltre al desiderio. Il desiderio di un figlio sicuramente può essere una delle componenti che muove verso l’adozione, ma non può essere la principale o la sola, come nel caso del film. Qui però in più si aggiunge la questione del sogno, del padre scomparso che indirizza questa bambina verso la figlia perché “la prenda”. Oserei dire che desiderio, in questo caso, diventa la pretesa di un diritto, che sembra quasi passare per il capriccio.

A una coppia che sta iniziando a pensare all’adozione e che ha visto Vittoria, “dopo” voi cosa vorreste aggiungere?

Che non si proietti in tutto ciò che ha visto. Il percorso adottivo non è quello e non deve assolutamente esserlo. Comprendiamo benissimo che le motivazioni dei registi fossero altre e, infatti, sono altri aspetti a prevalere e a fare di quella pellicola un film intenso ed emozionante. Ma nel film non traspare assolutamente il percorso di crescita che la coppia deve fare – insieme e con il resto della famiglia, tra l’altro – per prepararsi ad accogliere un figlio o una figlia; così come l’intervento dell’ente sembra essere solamente tecnico-amministrativo, quasi fosse un’agenzia che organizza un viaggio, mentre sappiamo che il ruolo dell’ente è anche molto altro, dall’accompagnamento al supporto alle famiglie durante tutto l’iter e oltre. Ci ha comunque colpito il fatto che, nonostante il drastico calo delle adozioni in tutto il mondo e la crisi del sistema adozioni in Italia, quest’anno a Venezia i film che, in modi diversi, affrontavano le tematiche adozione, affido e genitorialità, siano stati ben quattro. Oltre a Vittoria, infatti, sono stati presentanti Il mio compleanno di Cristian Filippi, L’Attachment di Carnie Tardieu e  Vakhim di Francesca Pirani.

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