Cultura

«Non fare sconti alla realtà»

Parla Sergio Ramazzotti, classe '65, professione reporter

di Simone Stenti

Vincere due volte – in 5 anni – lo stesso premio significa essere davvero una spanna sopra gli altri. La giuria del prestigioso premio ?Enzo Baldoni? (riconoscimento che dal 2005 premia fotografi e giornalisti che hanno raccontato i processi di dialogo e di comprensione tra diverse culture, etnie e religioni), affollata di big del giornalismo, non ha avuto infatti nessun tentennamento nel ri-scegliere quest’anno Sergio Ramazzotti, 45enne fotoreporter milanese dell’agenzia Parallelozero, che il Baldoni se l’era già intascato nel 2005. Il suo libro fotografico Afghanistan 2.0 ? 10 storie 1 futuro è infatti uno struggente atto d’amore verso una professione in via d’estinzione: l’inviato di guerra.

Che cosa significa essere fotoreporter nell’epoca delle tecnologie esasperate?

Viviamo in una cultura dello strapotere dell’immagine e, teoricamente, dovremmo essere più capaci di leggere la realtà attraverso di essa. Invece, s’è sviluppata indifferenza e assuefazione. Dopo lo tsunami del 2004 che ha travolto il sud est asiatico ho fatto una foto in un obitorio cingalese. Ritrae un inserviente che tira fuori da un secchio lurido il corpo senza vita di un neonato. Sullo sfondo, sfuocato, c’è un altro corpo esanime. Un’immagine tragica, crudissima. Eppure, la maggioranza della gente che la vede s’illude che il bimbo sia vivo e quella sfuocata sia la madre che ha appena partorito. È un processo di edulcorazione che sta tutto negli occhi di chi guarda, perché quella povera creatura è indiscutibilmente un grido di morte. Non vogliamo più vedere le immagini troppo crude, anche se poi siamo disposti a pagare un biglietto per vedere al cinema Hannibal the Cannibal mangiare un cervello. L’orrore ormai è relegato allo svago.

Il tuo sembra ancora un lavoro artigianale.

Lo è. Scattare una foto è un affare fisico ed emotivo, prima che intellettuale. Già riuscire ad arrivare nel cuore delle situazioni, là dove succedono, è difficile e faticoso.

Poi non puoi permetterti di puntare semplicemente l’obiettivo e scattare.

Questa è violenza. Se vuoi entrare nella storia, devi saperci mettere empatia e compassione, i veri attrezzi del mestiere. Ryszard Kapucinski diceva che non riusciva a scrivere di un essere umano con cui non aveva convissuto.

Lo stesso accade se racconti con una macchina fotografica. L’enorme evoluzione dell’attrezzatura di questi ultimi 25 anni è ininfluente rispetto all’approccio.

Tanti editori pensano ormai che il lavoro dell’inviato non serve più, che siete esemplari in via d’estinzione.

Macché, mi è capitato così tante volte di scovare delle notizie che fino al giorno prima non esistevano. No, l’esperienza continua a insegnarmi che tante delle cosiddette ?notizie? accadono in posti dove le solite autostrade dell’informazione non passano. L’Afghanistan, che pure ho fotografato in un numero indicibile di volte, ogni volta mi regala punti di vista diversi. Mi spiace per gli editori, ma c’è molto bisogno che ci sia ancora qualcuno che vada davvero a vedere di persona e lo racconti.

Che cosa, oggi, non si racconta?

Ho seguito gli americani in Afghanistan e in Iraq, e li ho visti reagire alle situazioni più tese in modo assai meno professionale di quello che ci si attenderebbe dalla mitica potenza militare. Loro prima sparano, poi si pongono domande. Di recente, in volo su un Black Hawk, ho visto mitragliare a un riflesso: il pilota non sapeva neppure a chi stesse sparando, poteva essere un pastore, una donna o un bambino. Pur essendo contro questa guerra, trovo invece molto consolante che ci sia un esercito come il nostro, che di interpreta in modo giusto la teoria della ricostruzione.

Ormai Afghanistan e Iraq sono tornati a essere lontanissimi. Non fanno quasi più notizia.

Eh, il circo dell’informazione va così… Eppure, nonostante il ritiro delle truppe, l’Iraq è un paese ancora incapace di reggersi sulle proprie gambe. Se non fosse intervenuto l’Iran, non avrebbero neppure potuto formare il governo.

Attentati, auto-bombe, edifici che esplodono sono ancora all’ordine del giorno, ma non se ne parla, perché gli occidentali non ci sono più.

Mediamente, quanto tempo all’anno stai in giro per il mondo?

Sette, otto mesi. Nell’ultimo anno sono stato in Palestina, Tailandia, Nigeria, Afghanistan, Somalia, India. Oltre all’Europa e… a San Marino.

Quale dei tuoi tanti viaggi ti ha lasciato più segni in assoluto?

La traversata dell’Africa, da Algeri a Città del Capo, che ho fatto nel ?92, solo con mezzi pubblici. A quei tempi anche solo telefonare era un numero da circo. Lì ho imparato ad apprezzare il potere della lentezza, e ho capito la bellezza di scoprire un continente non attraverso i monumenti o i panorami, ma dalla gente.

Hai mai avuto paura di morire in missione?

Tante volte mi son detto: ?È finita!?. Solo in Iraq, nel 2003, mi è capitato di pensarlo almeno tre volte. La più brutta? A un posto di blocco americano. Non avevano capito i nostri segnali e ci hanno sparato ad altezza uomo. Ho sentito il sibilo delle pallottole. Poi siamo stati in ginocchio per mezz’ora, con le mani alzate, senza sapere le loro intenzioni. Pessima sensazione.

Come hai vissuto la vicenda di reporter part-time di Enzo Baldoni? C’è ancora chi dice che se l’è andata a cercare…

Part-time o no, Baldoni era un cronista innamorato della testimonianza diretta e delle tante piccole verità che servono per interpretare la realtà più generale. Partiva col vero spirito del reporter: per raccontare storie e non per la fama o la firma su un giornale. Io credo che questo mestiere abbia un fondo di nobiltà, che lui interpretava appieno.

Che consigli daresti a un giovane che vuol fare questo mestiere?

Non è di sicuro un mestiere che fai per denaro. Se non ci credi, lascia stare. È un mestiere duro, durissimo, persino fisicamente. E se non ci credi, non troverai mai le energie per resistere. Se lo consiglio? È un continuo stage multidisciplinare in psicologia, antropologia, geografia politica, economia, nella più bella università: il mondo. Che cosa c’è di meglio?

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