Non profit

Non esistono terre incoltivabili, solo deserti di paura

di Elena Zanella

Qualche sera fa, ho assistito alla presentazione del libro di Dario Boldrini, Il Giardino Planetario.

Dario, architetto del paesaggio, si occupa di giardini. Non di giardini però come siamo soliti immaginarli, quelli residenziali per intenderci, e che usiamo mettere in mano a vivaisti.

No, Dario è quello che si suol definire “giardiniere planetario”: dà vita a giardini mettendosi in ascolto; nel farlo, utilizza tutti i cinque sensi, assecondando quel che c’è per natura perché da natura è creato.

Da lì inizia la sua opera dando vita ad ambienti vivi e vitali, nel rispetto di Madre Natura. Senza artifizio. E senza artificio i bambini presenti hanno voracemente immerso le mani nella terra e nei semi, assorbendo quell’energia vera e naturale che abbiamo dimenticato esista, specie per chi, come me, vive in città.

Nell’ascoltare Dario, ho trovato parallelismi inaspettati con il mio modo di lavorare, di intendere il fundraising e la crescita del Terzo settore.

Sono due, in particolare, i passaggi che mi hanno indotta a riflettere e, quindi, a scriverne.

Il primo ha a che fare con la semina.

Il contadino, spiega Dario, non teme di sprecare risorse. Il contadino sa che da 100 semi non nasceranno mai 100 piante. Il contadino sa che se quel seme è di un frutto, probabilmente non ne godrà. Tuttavia, il contadino non si preoccupa di gettare i semi perché tanto sa bene che non da tutti i semi nasceranno frutti ma sa che ciò accadrà e che qualcuno, dopo di lui, ne beneficerà.

Il secondo riguarda l’attesa e l’ascolto.

Dario, nel suo lavoro, si ispira ai princìpi del Manifesto del Terzo Paesaggio introdotti da Gilles Clément. L’essenza del lavoro di Clément sta nel mettersi in ascolto, seguendo il flusso naturale dei vegetali, talvolta assoggettandosi a loro, collocandosi nella corrente biologica che anima il luogo, per orientarla.

In aula e nei miei testi parlo spesso della necessità di acquisire una nuova consapevolezza di sé. Come professionista, negli anni ho imparato ad assecondare la natura degli enti, chiedendo loro, in primo luogo, di lavorare proprio su questa, spesso data per scontata.

Da qui, poi, si interviene con gli accorgimenti (o strumenti) che meglio si adattano alla natura propria dell’organizzazione e ci si dà il tempo perché i semi sboccino e diano frutti: il che può avvenire anche dopo che il tuo, mio, nostro compito è terminato.

Da 100 semi non nasceranno mai 100 alberi, ecco perché non possiamo smettere di seminare. Ecco perché ci vuole visione!

Ma non è poi dal marmo, in apparenza senza vita, che Michelangelo trasse i suoi capolavori?

Tutto sta lì: saper ascoltare, definire e scolpire permettendo alla personalità di uscire per ciò che è veramente, nella sua essenza distintiva. Perché gli orpelli, anche i più belli, tali restano e il più delle volte cadono lasciando manifesta quel che resta: la nostra nudità.

La responsabilità delle scelte è nostra, non di altri. Comprenderlo è il primo passo. Quello successivo sarà l’individuare a chi affidare il nostro giardino.

(Mi scuserà l’autore, che ringrazio per l’ispirazione, se non ho riportato fedelmente le sue parole o se vi sono imprecisioni ma il senso penso di averlo colto in tutta la sua essenza. Il titolo è lo strillo del suo libro che ben si sposa con un mio precedente post).

(La foto è mia: l’autore in lontananza e il Tirreno sullo sfondo. Ringrazio Evi Mibelli, mia amica ed editor, per l’invito e la Fattoria Pimpinella per la squisita ospitalità).

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