Quando dico che le storie hanno un forte valore terapeutico, spesso, devo motivare il mio pensiero. Oggi si parla tanto della narrazione nelle sue forme e applicazioni più diverse ma, ancora, serve farla conoscere per bene e per questo ho pensato di portare, in questo spazio, una testimonianza importante. Quella di Bianca Borriello, storyteller e consulente di comunicazione, che condivide il suo pensiero e la sua esperienza diretta su un tema rilevante come quello dell’importanza che le storie possono avere in ambito sociale e terapeutico.
“Gli uomini raccontano storie per accorciare le distanze. Le distanze tra se stessi e gli altri, le distanze tra l’incomprensibile e il compreso, le distanze tra l’accaduto e il ricordo. Tra il presente e le infinite variabili del possibile. Accorciare le distanze è il movimento generato dal racconto e si rende necessario quando l’alternativa crea isolamento, solitudine, paura. Ormai da qualche anno cerco di usare le mie conoscenze di storytelling per accorciare le distanze tra chi è affetto da una patologia e il resto del mondo, l’ho fatto portando sul palco del TEDx di Trento, nel 2016, la storia del mio melanoma, l’ho fatto con la favola "Marta e l’elefante” del 2017, che serviva a simbolizzare la difficoltà di trovarsi improvvisamente a convivere con una diagnosi importante, e ho voluto farlo quest’anno con lo spettacolo di live storytelling Non esiste l’amor per riportare al centro del discorso il tema dell’Alzheimer. Quando a gennaio di quest'anno un’importante multinazionale americana (Pfizer) ha interrotto la ricerca destinata alle patologie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer, perché si dice stiano portando scarsi risultati e soprattutto con tempi lunghissimi, io non avevo elementi per confrontarmi con la legittimità di questa decisione, ma da studiosa di narrazione mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto nella mente dei tanti malati e familiari di fronte a questa notizia. Cosa sarebbe accaduto al racconto del loro futuro, alla narrazione prefigurativa con cui ciascuno deve necessariamente confrontarsi quotidianamente.
La storia di mia nonna era depositata nei miei ricordi da più di vent’anni e ho scelto di riprenderla su una spinta quasi involontaria per provare a ricucire questo discorso interrotto, se non tra paziente e ricerca, almeno tra paziente e resto del mondo. E nel resto del mondo ci metto sia chi non ha nessuna esperienza di questa patologia, sia tutto il mondo medico e assistenziale con cui il paziente deve relazionarsi. Il racconto ha, per sua natura, il potere di generare una risposta affettiva, una condivisione emotiva agendo sulla capacità cognitiva di assumere la posizione dell’altro. A fronte di questo io sono abbastanza convinta che se non nel processo decisionale, sicuramente nel momento in cui la decisione viene comunicata, “notiziata”, questo assumere il punto di vista dell’altro, condividerne l’emozione e in fine corrispondergli una reazione affettiva, possa avere l’effetto di accorciare ogni distanza, andando ad incidere sulle parole, sulla forma, sul contesto in cui la notizia viene data. Quindi, in definitiva, racconto storie perché nessuno venga lasciato solo con la propria storia. E se nessuno viene lasciato solo è possibile che sia meno difficile qualunque battaglia”.
Sono stata una bambina nostalgica. Fateci caso, magari ne conoscete anche voi di bambini nostalgici. Avevo sempre la nostalgia dell’attimo prima.
Io che oggi penso che ogni istante sia migliore del precedente, che mi guardo indietro con un senso di fatica, che a tutta la strada che ho fatto non voglio più pensare, io, da bambina ero nostalgica.
Mi guardavo con gli occhi della mia vecchiaia, o di quella che immaginavo sarebbe stata la mia vecchiaia e mi rammaricavo – in anticipo – dell’ipotesi di non ricordare. Quindi, per scongiurare questo timore facevo quello che si fa in questi casi, scrivevo, raccoglievo, fotografavo, disegnavo. In un’ansia ingestibile di documentare tutto. Di passare il testimone. Ho letto di recente un articolo che dice che i figli si costruiscono e che li costruisci, giorno per giorno, dando loro qualcosa in eredità. Non materiale, o non esclusivamente. Un’eredità di sentire, di gesti, di comportamenti. I figli sono quelli a cui lasci qualcosa da portare avanti o qualcosa su cui costruire – poi – dell’altro. Io ho iniziato a lasciare la mia eredità ai miei figli quando ero ancora io una bambina. Registravo tutto, per non dimenticare. Per poterglielo consegnare un domani.
Ho continuato così più o meno fino ai miei 17 anni. Poi, a 17 anni, ho incontrato Clara.
Clara era mia nonna materna ma io la conoscevo pochissimo.
Padre napoletano, madre viennese, si era sposata giovane, era rimasta vedova giovane, ha avuto sette figli, e poi quindici nipoti.
Durante la mia infanzia l’avevo vista poche volte e mai mi aveva lasciato qualcosa, di particolare, da ricordare, da portare avanti, appunto. Non era affettuosa, né generosa, né particolarmente simpatica.
Si ammalò ma, come succede spesso, non fu subito chiaro di cosa si fosse ammalata. Sentivo dire “di vecchiaia”. Come ci si ammala di vecchiaia?
Eh, ci si ammala più o meno così: un giorno, mia nonna, seduta al tavolo di cucina si fece tutta seria e disse “Maria, prendi una penna e scrivi: 7 tazzine, 7 lenzuola matrimoniali,
7 mesali, 7 fazzoletti, 7 servizi di posate, 7 camice da notte, 7 mutande.
Io mi guardai intorno in cerca di Maria, prima di capire che mia nonna stava parlando con me.
Il tono e l’espressione erano così seri che per un attimo ebbi la sensazione che quella – fuori luogo – fossi io. Cioè davvero per un istante mi sono chiesta se per caso io non fossi Maria. E dunque, in quella veste surreale e provvisoria, chiesi: ma che ci devi fare, con tutte queste cose?
Mia nonna mi guardò e, forse, mi vide, perché rise con i suoi denti allineati e perfetti e disse “m’aggia spusà”. Mi devo sposare.
Mia nonna Clara, aveva 78 anni, denti bianchi e perfetti, 7 figli, tutti viventi, quindici nipoti, tra i quali io, e aveva l’Alzheimer.
(Testo tratto da Non esiste l’amor scritto da Bianca Borriello e Stefano D’Andrea)
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