Trovo, sul sempre interessante blog di Guy Bordessoule, Navric, la segnalazione di un impressionante reportage fotografico sulla ‘’guerra’’ dell’establishment urbano parigino contro i senza fissa dimora. Si trattadi un e-book che ripugna sul cuore di una grande capitale, Parigi, e sulla fantasia nella progettazione cattiva di barriere architettoniche che banche, commercianti, normali cittadini installano, come ‘’protesi di sicurezza’’, per tenere lontani i poveri e impedire loro di sistemarsi per la notte in qualsiasi angolo della città. La foto qui sopra è tratta dall’ e-book che potete consultare per intero qui, e che si intitola “Non davanti alla mia porta”. Guardatele a tutto schermo, per favore.Gli autori di questa ricerca fotografica sul campo – Arnaud Elfort e Guillaume Schaller – in una brevissima introduzione all’album (raccolto su Flickr con licenza CC) parlano giustamente di ‘’escrescenze urbane’’ . Scrivono: «Le escrescenze urbane anti-senza fissa dimora si moltiplicano a Parigi (o altrove) e respingono i poveri verso zone sempre più inospitali. Questa violenza ordinata, indifferente alle sofferenze altrui è una risposta silenziosa e paradossale all’ ultima precarietà, che dovrebbe migliorare la qualità di vita dei parigini disturbati dalla miseria del paese. In realtà queste iniziative (collettive, private, pubbliche), non fanno altro che partecipare alle degradazione delle relazioni umane, e al trionfo egoista dell’ individualismo’’.
Nel 2007, quando imperversava l’assessore-sceriffo Cioni a Firenze, con le ordinanze (copiate poi da molte amministrazioni di destra e di sinistra) avevo scritto un appello per la libertà di elemosina. Scrivevo: “Come tanti italiani, anch’io sono un cattivo cittadino, almeno la metà dei miei 20mila chilometri l’anno in auto, li percorro nel traffico cittadino e come a tutti, mi capita spesso di imbattermi nei lavavetri. Le mie reazioni sono le più diverse: fastidio, compassione, apprezzamento per la soluzione improvvisa di un bisogno effettivo (il mio vetro è solitamente sporco). Ma c’è una cosa che i lavavetri mi regalano ogni giorno, l’opportunità di imbattermi fisicamente nel diverso da me, la possibilità di guardarlo in faccia e di decidere in pochi secondi se quella faccia diversa, spesso dura o bugiarda, altre volte sofferente, c’entra con me, se mi interpella e ha da dirmi qualcosa e se io ho da dire e da dare qualcosa a quella vita, a quella faccia estranea. E, nell’epoca del virtuale è questa una decisione e un gesto molto concreto che tocca solo a me. C’è uno spiraglio di salubrità in tutto questo. «In un Paese civile l’accattonaggio molesto dovrebbe essere perseguito», ha scritto tempo fa Gad Lerner, campione democratic. Ma che significa molesto e chi decide quando lo è? È molesto chiedere l’elemosina allungando la mano? Ma come, nell’epoca dei “più diritti per tutti” ora si vuol vuol vietare al povero di mendicare? Si vuol vietare a chi ha bisogno di chiedere aiuto? Ma che civiltà stiamo costruendo? Lasciate all’uomo il diritto di mendicare e il diritto di donare. Lasciateci la possibilità di compassione, cioè di sentire che il bisogno dell’altro è sofferenza anche per me e che io, io personalmente, sono chiamato a sanarlo. Senza com-passione non ci sarà giustizia. L’elemosina (dal greco eleèo, cioè ho compassione), prima mossa della condivisione, il percepire che il destino dell’altro è parte del mio stesso destino, è al centro del Vangelo. Nelle Beatitudini si dice: «beati coloro che avranno compassione, perché la stessa compassione riceveranno». L’elemosina è il terzo pilastro dell’Islam e lo zakat è il debito verso Dio che il musulmano deve saldare per ciò che Egli gli ha dato. Il Deuteronomio (uno dei cinque libri della Torah) dice agli ebrei: «Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese». Chissà se l’astrazione cui accennavamo, la mancanza di pietà verso i deboli, la mancanza di fantasia nella carità, l’immunità che invochiamo contro ogni senso di comunità, abbia proprio a che fare con lo spirito irreligioso di questi tempi“.
Temi che ricorrono in una mostra in Triennale a Milano (sino al 10 gennaio 2010) intitolata “La città fragile” a cura di Aldo Bonomi e che come esergo ha una frase di Dostojevski, “Non è rinchiudendo il proprio vicino che ci si convince del proprio buonsenso”. Non è neppure scacciandolo dalla propria soglia, allontanandolo dalla propria vista con spuntoni o sassi artificiali. Visitate la mostra, è un buon antidoto contro il rancore dell’egoismo e del malessere dell’individualismo che non riesce più a mangiare futuro.
Oggi, Benedetto XVI, probabilmente memore dell’oscena esposizione delle trans romane in ogni salotto televisivo, e ancora colpito dagli echi degli attacchi leghisti al cardinale Tettamanzi, rendendo omaggio all’Immacolata Concezione in piazza Navona, ha riflettutto sulle gragilità metroplitane dicendo: “Nella città vivono – o sopravvivono – persone invisibili, che ogni tanto balzano in prima pagina o sui teleschermi, e vengono sfruttate fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione. E’ un meccanismo perverso, al quale purtroppo si stenta a resistere. La città prima nasconde e poi espone al pubblico. Senza pietà, o con una falsa pietà. C’è invece in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”.
Già, escrescenze urbane e indifferenza violenta verso gli altri, oppure accoglienza come spazio dialogico e libertà di costruzione.
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