Formazione

Non chiamiamola didattica a distanza ma didattica d’emergenza. Ridateci la classe

Sulla DaD prendono parola tutti tranne i bambini e i ragazzi. Se c’è una cosa evidentissima che ci restituiscono gli studenti in questi giorni è quanto la prossimità, lo stare nella stessa classe, sia il fondamento per andare lontano e aprirsi al mondo

di Giulio Cederna

Fischia il vento, infuria la bufera, ma non è solo l’eco felice della Liberazione. Da diverse settimane ha preso a mugghiare il dibattito sulla didattica a distanza. Da ogni possibile device e apparecchio tecnologico, ad ogni ora del giorno, risuonano nelle nostre case le prese di posizione di tutti gli attori della comunità educante: insegnanti, educatori, psicologi, genitori. Tutti eccetto loro, i diretti interessati, i destinatari finali delle lezioni da remoto.

Io stesso, che cerco di leggere e annotare da settimane tutto quello che si dice sull’argomento (impresa peraltro impossibile), mi accorgo improvvisamente (tuffo al cuore!) di non avere la più pallida idea di cosa ne pensano i miei figli, gli unici veri esperti in famiglia. Imbarazzato, cerco di recuperare a tavola. Come va la scuola con il PC? Cosa vi manca delle lezioni in classe? E cosa vi piace del nuovo modo di imparare? Emma, 11 anni, e Diego, 9 anni, sono un fiume in piena.

«Per prima cosa mi mancano gli amici», dice Diego. «Mi manca anche la prof – gli fa eco Emma – quando sbaglio un compito viene qui e mi spiega, mi dice ‘ecco qui l’errore’… Ora invece senza qualcuno che te lo fa presente continui a ripeterlo. È una cosa brutta». «Mi manca la lavagna – dice Diego – Quando non senti cosa ha detto la maestra, perché ti sei distratto un attimo o magari perché il tuo gatto ti ha morso le cuffie (la nostra si chiama Olivia e partecipa attivamente anche lei alla DaD, ndr), e non c’è la lavagna, ti perdi e non capisci più niente». «Oppure perché la prof spiega troppo veloce e tu non fai in tempo a leggere la lavagna digitale – aggiunge Emma – e rimani indietro con la spiegazione. Sulla lavagna, quella vera, hai molto più tempo e più spazio per capire, poi se ti distrai è un altro conto». «E poi a volte tutti parlano, altri scrivono sulla chat, c’è confusione – rincara Diego – e non riesci a seguire quello che dice la maestra» «Per non parlare di quando la connessione comincia a baggare – dice Emma – La prof prende a balbettare ‘aaaa…uuu…iii…’ e quando ritorna umana è passata ad altro e tu ti sei persa». «Poi a volte ti mutano il microfono». «Oppure il tuo compagno non spegne il microfono e senti sullo sfondo… ‘a ma’, so’ finite le frittelle…’». La lista dei bug stilata dai miei figli è impietosa e continua a lungo… «Mi manca il cortile, dove giochi con gli amici». «Mi manca la ricreazione dove parli, chiacchieri, ti diverti… vivi». «Mi manca la palestra». «Mi manca la privacy… a scuola posso dire le cose a un amico senza che mi senta tutta la classe». La lista delle cose belle della scuola ai tempi del Covid-19 invece si esaurisce quasi subito.«Non mi mancano i bagni. Non mi manca la mensa…», e cose del genere.

Mentre ascolto i loro cahiers de doléances non posso non pensare a quanto in fondo siano privilegiati. Hanno una casa piena di libri, un cortile dove possono scendere a giocare quando cala il coprifuoco. Un PC e una connessione stabile, alcuni insegnanti che ci provano e qualche fuoriclasse. E tuttavia anche loro, malgrado tutto, faticano terribilmente ad essere connessi con la scuola. Li vedo girare a vuoto. Poi penso a quella marea di bambini e ragazzi che non hanno PC, tablet, connessioni, e genitori in grado di accompagnarli nella navigazione educativa, che magari vivono in quartieri infelici, attesi dall’estate del distanziamento sociale, con l’incognita di non poter frequentare scuole, centri estivi, oratori e l’impossibilità di ‘fare comitiva’.

È innegabile, come è stato ripetuto più volte in queste settimane, che l’emergenza di questi mesi rappresenta un’occasione, perché costringe la scuola a mettersi alla prova, ad aggiornare la didattica, a fare un balzo in avanti. Ed è certamente vero che in questo momento l’Italia è ricca di sperimentazioni straordinarie, vere e proprie innovazioni pedagogiche che speriamo possano fare scuola. Ma l’enfasi su ciò che funziona – nel 20% scarso di scuole, secondo un esperto come Angelo Bardini – non deve sviare il dibattito dal cuore del problema.

La didattica a distanza nella stragrande maggioranza dei casi non sta funzionando e ha l’effetto di esacerbare le diseguaglianze. Lo ha mostrato un volta per tutte, con ricchezza di esempi da tutta Italia, il webinar organizzato dal tavolo Saltamuri promosso dal Movimento di Cooperazione educativa.

Non è solo una questione di digital divide e di tablet e PC mancanti, da recuperare a ogni costo. L’accesso alle nuove tecnologie può integrare e arricchire la didattica, ma l’accesso allo spazio democratico della scuola è l’unica garanzia per costruire inclusione e cittadinanza. «Non chiamiamola didattica a distanza – ha detto Franco Lorenzoni aprendo l’incontro – ma didattica dell’emergenza: perché il rischio è quello di scambiare questo momento di costrizione, che ci obbliga ad usare solo questi strumenti, come una prefigurazione del futuro. Ma non è così. Questa è una scuola necessaria oggi, foriera di sperimentazioni interessanti, ma noi siamo assolutamente dell’idea che non può essere la scuola del futuro. Se c’è una cosa evidentissima che ci restituiscono gli studenti in questi giorni è quanto la prossimità, lo stare nella stessa classe, sia il fondamento per andare lontano e aprirsi al mondo».

In questo quadro, l’obiettivo principale delle prossime settimane e mesi, deve essere quello di compiere uno sforzo straordinario per riaprire le scuole il prima possibile, come si sono impegnati a fare Francia, Germania e Spagna. Già a partire da quest’estate, unendo gli sforzi di tutta la comunità educante. Servono idee nuove, serve l’impegno di tutti. Troviamo il modo per riaprire il futuro del Paese, non c’è tempo da perdere.

Pubblicato da https://fondazionepaolobulgari.org/

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.