Kafka definisce il tragico come il sentimento di esclusione da quello che ci appartiene. Mi torna in mente un dipinto, un “Nudo di ragazzo su paesaggio”, che si trovava in casa di mia zia.
Di tutto quello che c’era nella casa, mi colpiva soprattutto questo grande dipinto. Mi sembrava di riconoscere quel ragazzo, di cui non notavo nemmeno la nudità. Conoscevo a quel tempo un ragazzo di nome Gianni. Non che io, che avevo cinque o sei anni, stabilissi somiglianze fisiche tra il ragazzo dipinto e questo Gianni, però mi veniva naturale dare al ragazzo dipinto lo stesso nome: aveva una faccia da “Gianni”, nel senso che l’esperienza che mi dava vederlo era la stessa che mi dava la vista di quel ragazzo molto più grande di me, ossia un misto di attrazione e soggezione.
Io volevo diventare come Gianni. E adesso Gianni stava dentro quel quadro, che mi attirava enormemente con quel suo paesaggio, con quel suo cielo, con quella sua casa che io non avevo mai visto. Noi ci parlavamo, ma io sapevo che il luogo dove si trovava non era il mio, e che io non sarei mai stato il quel “lì”, perché quel “lì” era un quadro, e il suo paesaggio non era meno vero di quello reale, anzi, forse era più vero, però era irraggiungibile, così come lo era Gianni: perciò a che valeva che io cercassi di somigliare a lui?
Dopo molti anni seppi che il ragazzo raffigurato nel quadro non era Gianni, ma il padre di Gianni.
Questo è il primo pensiero che io abbia mai avuto riguardo all’arte, e il sentimento insieme di familiarità e di incolmabile lontananza, di intimità e di esclusione che provavo è stato il mio primo sentimento sull’arte, un sentimento tragico ma al tempo stesso normale, nel senso che è il sentimento che ci vuole.
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