E’ vero. Il quadro, nel complesso, è deprimente. La rappresentazione della società italiana che scaturisce dai 100 indicatori di #NoiItalia non lascia spazio all’ottimismo, considerando che lo sviluppo interno arranca e che i vettori economici a livello macro perdono capacità di traino. Ma per chi vuol fare innovazione sociale, cioè misurarsi con le principali “societal challenges”, questi stessi dati sono una manna, perché misurano, letteralmente, l’entità dei problemi da risolvere e la relativa capacità di risposta. Ed è interessante notare come le sfide scaturiscano sia da andamenti dei dati che disegnano curve (dunque una rottura rispetto al passato recente), sia linee costanti che invece restituiscono un quadro di immobilismo, altrettanto – se non più – complesso da affrontare.
Tra i cento indicatori, ne scelgo 3 perché confermano meglio di altri che, sì, chi investe in innovazione sociale in questi ambiti ha fatto la scelta giusta in termini di rendimenti attesi, anche e soprattutto sul valore sociale. Sarà rispetto a questi parametri che si potrà misurare l’impatto delle progettualità e delle politiche in termini di innovazione sistemica, cioè nel correggere la rotta delle curve o nel rianimare “l’encefalogramma piatto” di alcune tendenze. Eccoli.
1. Fuga dal primo welfare. Il calo dei bambini che frequentano asili nido è la spia di una tendenza più ampia che riguarda l’abbandono dei servizi di protezione sociale erogati attraverso il meccanismo classico del welfare state, ovvero risorse economiche pubbliche redistribuite per cofinanziare l’offerta gestita direttamente dalla stessa pubblica amministrazione o, più spesso, attraverso fornitori che in molti casi sono organizzazioni nonprofit e imprese sociali. Una fuga che avviene non per riduzione delle unità di offerta (sostanzialmente stabili) e non solo per la crescita dei livelli di compartecipazione alla spesa da parte degli utenti. Il dato evidenzia anche (e soprattutto?) un problema di efficacia del modello di servizio. Spazio aperto quindi per chi voglia ridisegnare i servizi di welfare, incorporando elementi di innovazione che, molto spesso, riguardano il coinvolgimento di attori e comunità locali dentro contesti di co-produzione.
2. Una nuova classe di asset immobiliari. La debacle del mercato immobiliare è forse la curva che meglio di tutte rappresenta non solo una “crisi settoriale”, ma la fine di un modello di sviluppo che, anche nei decenni recenti, ha contribuito a generare importanti esternalità negative a livello paesaggistico-ambientale e di coesione sociale (a tal proposito altri dati, quelli del BES, sono altrettanto significativi). Anche in questo caso il problema apre opportunità ormai più che mature e che riguardano le politiche di riuso e ristrutturazione (il successo dei bonus fiscali in questo campo è lì a sottolinearlo), ma, più in generale, la definizione di nuove tipologie o classi di asset immobiliari come quelli destinati non semplicemente ad ospitare ma ad abilitare iniziative di innovazione in campo culturale, sociale, ricreativo. Lo spazio, in senso di mercato, lasciato vuoto dalla classica speculazione immobiliare non potrà che ricomporsi nel campo della riconversione di community asset grazie a joint ventures tra attori associativi, volontaristici, cooperativi e for profit. Un campo che si presta particolarmente anche a investimenti finanziari che incorporano obiettivi di impatto sociale.
3. Mutualizzare l’imprenditorialità. Il tessuto imprenditoriale italiano è cambiato radicalmente durante gli anni della crisi. Basti pensare al declino della produzione industriale e manifatturiera in termini di numero di imprese e di valore aggiunto. Ma di questo sommovimento epocale traspare molto poco se si guarda al contributo delle imprese come infrastruttura che, come ricorda Giacomo Becattini nel suo ultimo libro, determina sviluppo economico e “coscienza dei luoghi”. La linea sostanzialmente piatta del numero di imprese ogni mille abitanti segnala, a chi volesse cimentarsi in innovazioni in questo campo, la necessità di intervenire per organizzare una vera e propria società imprenditoriale capace di generare crescita economica, occupazionale e, non da ultimo, mobilità sociale e contaminazione tra settori, mercati, territori. Per questo bisogna innovare l’accompagnamento all’imprenditorialità, lavorando non solo per far nascere nuove imprese (magari con la sola, deleteria, azione degli incentivi), ma anche per arrestare la tendenza alla polverizzazione delle unità imprenditoriali, agendo la leva del mutualismo che nel nostro Paese ha radici ben profonde e rappresenta quindi un asset prezioso per indirizzare la crescita economica.
Campo aperto per l’innovazione sociale quindi. E nel caso non bastasse ci sono altri 97 indicatori…
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