Cultura

Noi, quelli della 2aG

Ovvero quelli della seconda generazione Otto ragazzi. Tutti attorno ai 20 anni. Tutti figli di immigrati. Attorno ad un tavolo della redazione, si sono raccontati a ruota libera...

di Emanuela Citterio

Bussy, 23 anni, diventerà ostetrica ad aprile. I colleghi, racconta, si sono ormai abituati «a vedere una donna velata con il camice bianco che si aggira tra i corridoi degli ambulatori o in sala operatoria». Hassan, 25 anni, sta per laurearsi in ingegneria. Sara, 19 anni, è arrivata con i genitori a Milano, dall?Egitto, quando di anni ne aveva 8. Le facce cha abbiamo di fronte, nella redazione di Vita, sono quelle di nove ragazzi che puoi incontrare in giro per Milano, al Politecnico o all?università Statale. C?è chi ha mamma italiana e papà egiziano, e chi viceversa. Chi è nato in Italia e chi ci è arrivato dopo. Chi fa il Ramadan e chi no. Gli esperti di immigrazione li chiamano ?la seconda generazione?: l?Italia è il loro Paese perché ci sono cresciuti, ma si muovono anche nel mondo dei loro genitori, conoscono le tradizioni da cui provengono e le hanno rielaborate. Adesso hanno voglia di dire la loro, sull?Italia, sull?Islam, sul velo e l?11 settembre. Yalla, Italia!, a te la parola.

La religione
Hassan Bruneo, 25 anni, da tre fa il ramadan. «I miei non mi hanno battezzato, né circonciso, né nulla. Sono stato lasciato allo stato brado», (risata di tutti gli altri). «Ho sempre seguito l?ora di religione cattolica a scuola. Mio padre è anche stato in seminario da giovane. Ha una profonda conoscenza, anche critica, da dentro, del cristianesimo. Si è convertito in modo formale per sposare mia madre. Ma i miei genitori mi hanno lasciato libro di scegliere la religione da seguire».

La religione è un ostacolo per l?integrazione? Risponde Buthaina Ibrahim, per tutti Bussy. Nata in Egitto 23 anni fa, vive in Italia da quando aveva tre mesi. «L?identità religiosa non è un ostacolo, anzi, credo che la cosa più bella sia trovare punti di contatto tra una religione e un?altra».

Gli ebrei
Bussy fa tirocinio in un ospedale di Milano, fa nascere bambini, assiste partorienti. Le capita di assistere donne ebree. «Una volta avevo di fronte una coppia molto giovane. Stavo compilando l?atto di nascita della bambina. ?Deciso il nome??, chiedo al padre. Lui mi fissa con un sorriso e mi dice ?Leyla? (nome ebraico, ndr). ?Un bellissimo nome?, rispondo. E lui: ?Ah, le piace??. E io: ?Sì, complimenti per la scelta!?. C?è stato questo scambio di sorrisi e di battute, e alla fine mi ha ringraziato molto per come avevo assistito la moglie. È stato un bell?incontro».

Il velo
«Portare il velo in ospedale non mi crea problemi», dice Bussy. «Lavoro soprattutto con le donne in gravidanza e le assisto al momento del parto. È un momento molto particolare per loro, in cui sicuramente non si mettono a ragionare su queste cose». Di solito, durante le ore del travaglio, è il marito che comincia a chiedermi da dove vengo. Poi il dialogo prosegue a tre sulla mia religione, la mia cultura, la loro».

«Solo il primo anno ho litigato con un medico», ammette Bussy. «Mi diceva che per integrarsi è giusto non portare il velo. Ci siamo messi a discutere davanti a tutti, non so come sono riuscita a fare tutto un discorso, e alla fine lui è rimasto in silenzio? ora tutti mi hanno accettato, anzi, farei cinquanta pause caffé al giorno se dovessi accettare tutti gli inviti dei colleghi».

La mamma e l?11 settembre
«Sono figlia di una coppia mista», dice Rassmea Salah, 25 anni, laureata in Mediazione interculturale e insegnante di arabo nelle scuole pubbliche. «Mia madre è italiana di tradizione cattolica, mio padre egiziano musulmano. Fino ai 6 anni non mi hanno imposto nessuna religione. Dai 6 ai 10 anni ho vissuto in Egitto e sono diventata, diciamo, una buona musulmana. Facevo il ramadan, pregavo cinque volte al giorno. Poi sono tornata in Italia e ho vissuto solo con mia madre, quindi con la parte italiana e cattolica della famiglia. A 16 anni, in piena crisi esistenziale, mi sono chiesta chi fossi e quale fosse la mia religione. Mi sono avvicinata al cristianesimo poi, dopo un anno di approfondimento, è arrivato il fatidico 11 settembre. Paradossalmente mi ha fatto capire quanto fossi in realtà musulmana, mi sono sentita chiamata in causa. A scuola, durante diversi incontri con gli altri studenti, ho sentito per la prima volta l?astio verso i musulmani. Una reazione comprensibile in quel momento: eravamo tutti impreparati all?11 settembre. Mi sono sentita in dovere di difendere la nostra identità. Ho riscoperto di essere musulmana. Sapevo bene che i musulmani non erano quelli che tutti dipingevano come terroristi. E quindi ho sentito questo dovere di prendere una posizione e difendere l?Islam come religione di pace e non di guerra».

Il velo e l?11 settembre
«Da poco porto il velo, anch?io in risposta all?11 settembre», dice Heba Alla Ibrahim, 24 anni, laureata in Scienze politiche e organizzatrice di corsi di arabo nella periferia di Milano. «Mi sono sentita tirare in mezzo da una forza più grande di me, dovevo rispondere in qualche modo. Ricordo che è stato un articolo di Oriana Fallaci, in particolare. Dopo averlo letto, mi sono detta: ?In qualche modo devo risponderle, non posso risponderle pubblicamente, lo farò a modo mio?. Il velo per me è importante. Non solo è un atto di fede, è un modo per dire che sono me stessa, e starci bene. Ricordo che a casa me lo provavo davanti allo specchio, è passato il mio fratello più piccolo e mi ha detto: ?Ma non vorrai mica uscire in questo modo? Se esci così io farò fatica a considerarti ancora mia sorella?. Scherzava, ma mi ha punto sul vivo: ?Allora io sì, ci esco?, mi sono detta».

L?ora di religione
«I miei sono entrambi musulmani», dice sempre Heba. «A scuola frequentavo le ore di religione cattolica, mia mamma ci teneva molto, mi ha sempre detto che era importante conoscere gli altri, per conoscere se stessi. Anche mio padre mi ha lasciata libera di fare un mio percorso spirituale, mi ha solo detto: ?Ricordati che come non puoi vivere senza mangiare, così non puoi vivere senza pregare?. E questo per me non vuol dire solo le cinque preghiere al giorno, ma anche rimanere assorti nel pensiero di Dio, in autobus, o per strada».

La carne di maiale
«Mia madre, di famiglia cattolica, in casa si è dovuta abituare a separare la carne di maiale dal resto», racconta Rassmea. «Le prime volte si dimenticava, e io mi arrabbiavo moltissimo perché non mi sentivo rispettata nella mia scelta. Però mi ha sempre accompagnato in moschea, e alle ripetizioni di arabo. Poi anche lei si è convertita, ma dopo il divorzio da mio padre. Il velo non lo porto, perché mi definisco una musulmana laica. Sono per la separazione della sfera pubblica da quella privata, e la religione la vivo in questa seconda sfera. Non credo sia il velo a fare la donna musulmana. Penso che sia più importante ciò che una ha nella testa, più che sopra la testa».

Amico, fai il Ramadan
«Io invece non faccio il Ramadan», spiega Maghdi Abo Abia, 24 anni, iscritto alla laure specialistica in Culture e linguaggi per la comunicazione. «In casa mio padre mi ha dato un?educazione molto laica. Ho una visione mia personale della religione, che forse è nata dal matrimonio di due visioni, quella di mio padre, musulmano, e di mia madre, cattolica. Devo essere grato ai miei genitori di avermi fatto capire il bene di entrambe le religioni ma senza ?impregnarmi? di queste visioni del mondo. Per questo non faccio Ramadan ma so cosa significa».

I nostri amici cristiani
«Un altro insegnamento che mi hanno dato i miei genitori è non guardare la forma ma la sostanza», continua Maghdi. «Ho scoperto solo dopo due anni che uno dei miei più cari amici era ebreo, con cittadinanza statunitense e israeliana». «Ho amici ebrei, cristiani, musulmani, non mi faccio di questi problemi», replica Mussi. «Quando conosco una persona che mi interessa non mi chiedo di che religione è, se viene dal Burundi o dalla Cina. Penso che tutto quello che è diverso può integrarmi, darmi qualcosa di nuovo».

«Rispetto ai miei amici cristiani, diciamo che mi rapporto meglio con chi ha un sentire religioso un po? più sviluppato», ammette Rassmea, la mediatrice culturale. «Uno dei miei migliori amici è un ateo convinto, ci battiamo su questi temi, ma rimane l?amicizia e l?affetto. Mi dico che lui avrà un altro percorso, forse un giorno incontrerà Dio, o forse non lo incontrerà mai». «Ogni persona ha un suo percorso», interviene Maghdi. «Forse però alcuni non ci pensano. Uno dice ?a me piace la pizza? ma non sa dirmi perché, così non sa spiegare la propria visione religiosa. Credo che non sia male confrontarsi con chi la pensa in modo diverso dal mio. Anche litigare con un ateo convinto è comunque un arricchimento. E comunque ci si può incontrare sul altre cose?».

Al liceo dalle suore
«Sono andata al liceo dalle suore, e portavo il velo. A volte in corridoio mi scambiavano per qualcuna di loro», scherza Sarah Sayed, che ha vissuto i primi otto anni della sua vita in Egitto. «Mi fanno arrabbiare le persone che dicono che per integrarsi bisogna togliersi il velo, che le ragazze devono vestirsi come qui in Occidente. Perché presuppongono che integrarsi sia? io la vedo come una sorta di alienazione, per integrarsi uno si allontana un po? dal suo essere. Integrarsi invece non significa allontanarsi dalla propria comunità, ma entrare in una società rispettando se stessi».

Gli imam e l?Islam
«La religione è rilassamento spirituale», dice Sara. «Nelle moschee vedo gli imam, quelli che predicano prima della preghiera, che alzano tanto la voce. Il profeta (Maometto, ndr), all?epoca, quando si radunava con il resto del popolo islamico, sottolineava il fatto di rimanere rilassati, tranquilli anche con il tono di voce, per trasmettere serenità e sicurezza agli altri. Non lo dico per andare contro a chi predica, ma l?Islam dovrebbe portare a questo».

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