Cultura

Noi, ostaggi d’Italia: «avevimo fame e freddo e avanti sempre»

Un libro, da poco pubblicato per le edizioni Exorma, raccoglie tre diari di altrettanti soldati semplici. Gente comune, umile che dopo anni di guerra e prigionia tenta di ritrovare la strada di casa. Testimonianze lancinanti su tre disfatte di Stato: Adua, Caporetto, l'armistizio dell'otto settembre

di Marco Dotti

La quarta di copertina di Dario Borso, Ostaggi d’Italia. Tre viaggi obbligati nella Storia (Exòrma Editore, 2021), recita: «Tre diari di soldati semplici, che cercano di tornare a casa dopo mesi e anni di guerra e prigionia, e tre disfatte di Stato: Adua, Caporetto e l’armistizio dell’Otto settembre. Testimonianze autentiche che illuminano mezzo secolo esatto di storia italiana, dal 1896 al 1945. I tre soldati scrivono in modo elementare, claudicante, ma sanno farci rivivere in pieno la loro condizione di paura e di stenti, e insieme la loro tenace volontà di sopravvivere. Sono pagine inedite (corredate da foto e manoscritti) che attraversano le zone più intime di vite modeste, che furono vittime di guerre non volute e ostaggi di ideali totalmente estranei».

Nel suo Libro a venire, in un capi­tolo dedicato al diario intimo e al racconto, Maurice Blan­chot racconta come al cuore del diario ci sia sempre la preoccupazione di un uomo, mai l'ansia effimera di un'opera. Un uomo con le sue relazioni, le sue cadute, i suoi pensieri, le sue speranze. Anche in una prigione – che, in fondo, è solo una trincea senza cielo – emerge quest'uomo. Emerge proprio nella scrittura. È l'uomo qua­lun­que, l’uomo comune, l’uomo della vita quo­ti­diana. Ed è in que­sta vita quo­ti­diana che si inscrive la pra­tica dia­ri­stica di un sé lacerato, al centro del bellissimo lavoro di scavo etico e filologico di Dario Borso. Precisamente si inscrive lì, nel cuore della vecchia, grande menzogna, the old lie, che sempre ripete: dulce et decorum est pro patria mori.

Basti leggere l’incipit del diario di prigionia del granatiere Giuseppe Giuriati, catturato dai tedeschi a Caporetto.


«Dopo tanti combattimenti, tanti dolori, tanto sangue, il 29 mattino di ottobre 1917 mi hanno circondato il nemico Germanico e dopo tanti controattacchi mi è toccato abbassare le armi. Allora siamo messi a piangere perché si pensava alla vita che mi toccherà passare sotto quel barbaro nemico. E poi subito dopo mi hanno messo per quattro e abbiamo incominciato a camminare. Intanto mi era passata un po’ di rabbia e in certo qual modo si diceva scherzando fra compagni: ormai abbiamo salva la ghirba.

Erimo al mattino del 30 ottobre per la strada, i nostri del carreggio, che erano scappati, avevano lasciati carri carretti tutti carichi di qualunque sorta di materiale e la maggior parte rovesciati nei fossi ancora coi muli attaccati. I cavalli erano sparsi per i campi e tanti erano morti di fame e molti forati dalla mitragliatrice. Si marciava con una guardia a cavallo davanti, quattro dai fianchi e quattro di dietro, tutti a cavallo. Si vedevano le rovine e morti di qua e di là specialmente presso case dei contadini, sotto le finestre, tre soldati ancora col fucile in mano.

Erimo ormai il giorno 3 novembre, si mangiava del granoturco che s’era perso per il campo dai muli nostri e qualche panocchia arrostita, granoturco e delle foglie di verze fino che ce n’era, e poi erba e poi radici di erba, una fame tremenda e freddo. Si doveva cambiare ma non si vede né cambio e né rancio venire e pochissimo da bere e a chi voleva parlare ci si sparava. Una vita così araba che non la fa neanche un cane, e uscir non si può, ma pazienza, si girava in cerca di qualche chicco di granoturco sperso ed io non mi mancava mai il pensiero alla famiglia e ai genitori e loro penseranno di me e non poter uscire, girando su e giù come in una gabbia. Da mangiare non si parla, una vita remenga al giorno e di notte si dorme per terra intassati come sardelle per iscaldarsi, ma speriamo di portarci meglio ma la nostra paura era che mi facessero morire di fame.

Il giorno dietro stanchi di vedere quei due cavalli che erano fuori del campo, li hanno caricati e portati da noi, allora confusione e si fa baruffa: chi taglia di qua e chi taglia di là e ce l’abbiamo mangiati così, appena riscaldati al fuoco e poi noi 4 abbiamo radunato delle ossa e abbiamo trovato un bidone e con un po’ di erba abbiamo fatto la minestra. Ora si incomincia a bruciare qualche baracca a suon di levare delle tavole e in una baracca c’era della crusca. La nostra squadra ha fatto saccheggio, si bagnava e poi si arrostiva come polenta in una lamiera e si mangiava benone.

Il giorno 6 siamo andati fuori con tre guardie 40 uomini e siamo andati a lavorare, mi hanno dato mezza pagnocca con la muffa e un uovo a testa e il mio per fortuna era alesso. Il lavoro era di pulizia a un magazzino di automobili nostro e là sotto le immondizie abbiamo trovato un soldato morto, poi strada facendo abbiamo trovato insalata, radicchi, qualche panocchia e così il giorno dietro l’abbiamo passato bene ma sempre là fuori giorno e notte.

Il giorno 8 erimo stanchi, sfiniti, i piedi con le piaghe e avanti lo stesso. Alla sera ci hanno dato un po’ di farina nell’acqua e poi torna a camminare sempre per strade e si trovava ancor dei morti italiani per i fossi poi in un crocicchio di strade abbiamo trovato un camion bruciato dal lancia fiamme con i cadaveri in cima.

Avevimo fame e freddo e avanti sempre: viene mattina, si fa tappa e mi danno un po’ di farina nell’acqua calda e dopo si inizia di nuovo il cammino e fuori per boschi e campagne. La guardia si dava il cambio e noi sempre in cammino, e ci battevano col fucile e a chi si allontanava ci sparavano. Diversi feriti e alcuni camminavano sgangherati dalle botte. Si arriva verso sera, una piccola tappa inaspettata, mi ànno dato una pagnocca in 5 uomini e poi si torna a camminare e si cammina e non si sa dove si va, la pioggia incomincia la sua opera e noi bisogna andare avanti e mai fermarsi, una vita peggio delle bestie. Io a vedermi così mi auguravo la morte.

Erimo il 10 mattina. Si continua a camminare giorno e notte – il tempo piove e si cammina lo stesso, si dorme in piedi camminando, si dimandava quanto cammino ancora e rispondevano sempre 6 chilometri e abbiamo camminato fino a notte tutti bagnati da capo a piedi. Arrivati a un paesetto si credeva che ci dassero qualche baracca per dormire invece un po’ di farina e una pagnocca ogni 5, erimo tutti bagnati pieni di freddo. Quella notte ci ànno lasciati fermi, davanti una chiesa in mezzo a un prato, era territorio ormai austriaco, un fango tremendo e piova che veniva dirotta.

Loro hanno piazzato 3 mitragliatrici e un riflettore e noi là fermi pieni di freddo e si gridava chi di qua e di là; alcuni hanno provato a allontanarsi e gli ànno sparato. Al mattino abbiamo visto 3 morti e 5 feriti, 2 morti dal freddo e alcuni gelati dal freddo. Abbiamo sentito dire che ci portano alla stazione e che ci spediranno in Germania. Ora si cammina un po’ più sperando, si passa per boschi e montagne. Arriviamo a un certo punto dove c’erano delle baracche, ci ànno messo dentro, e ci ànno dato un’altra pagnocca in 5 uomini. Erano baracche di montagna e là in quella notte abbiamo dormito dopo 5 giorni di cammino senza mai riposo e piova. Al mattino mi sono levato le scarpe e il calzetto sinistro e levandolo si è levata anche l’unghia del dito piccolo; quanti dolori! mi ho medicato, e quel giorno niente mangiare e io allora dissi con i miei compagni: “Questi sono gli ultimi giorni di nostra vita. Addio"».

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