Volontariato

Noi, donne e detenute l’altra metà dell’inferno

Un’ex terrorista, una straniera, una madre, una volontaria e una direttrice. Donne diverse, eppure così uguali.

di Cristina Giudici

Quando il 25 maggio scorso Silvana Giordano si è impiccata alla grata della cella che divideva con il figlio di due anni e mezzo, nessuno ha capito le ragioni del suo tragico e inappellabile gesto. Non l?ha capito l?assistente sociale che si stava battendo per farla uscire dal carcere di Avellino, dove era finita per piccoli reati connessi alla tossicodipendenza. Non l?ha capito il suo nuovo compagno con cui stava ricostruendosi il futuro, dopo anni di tossicodipendenza. Non l?hanno capito i politici e i giornalisti che hanno orchestrato il solito balletto di notizie incrociate, accuse, denunce, repliche e controrepliche. Per alcuni giorni si è gridato allo scandalo perché la legge Finocchiaro, che dovrebbe permettere alle madri-detenute di stare fuori dal carcere finché il figlio abbia compiuto otto anni, non è mai stata discussa. Poi, come sempre, la polemica è scemata, ma nessuno ha capito perché diavolo Silvana abbia gettato la spugna. Ora che il caso è stato ?chiuso? semplicemente perché nessuno ne parlerà più, almeno fino al prossimo suicidio,Vita ha voluto compiere un breve viaggio nel ?carcere delle donne? per capire chi sono, il loro malessere e conoscere il lavoro e le proposte di chi da anni si batte per umanizzare il carcere.

Qui devi rispettare
la legge del branco

«Più che semilibera sono semiprigioniera», dice di sé Angela Vai, ?fine pena mai? ossia condannata all?ergastolo. Dalla fabbrica alla lotta armata e poi subito in galera, vent?anni fa, e ora un futuro incerto. Due anni fa le è stata concessa la semilibertà, nel carcere di Opera. «Mi sento come un?immigrata, che cerca di conoscere un Paese che non è il suo e che ha problemi di lavoro e di diritti civili, insomma un soggetto svantaggiato. Oggi lavoro alla cooperativa sociale Alice T che opera nel campo della sartoria teatrale per la Rai, Mediaset e la Scala. La nostra è un?esperienza positiva perché due anni fa è stato aperto un laboratorio all?esterno del carcere e ha dato possibilità a varie detenute di uscire». Angela Vai li ha girati un po? tutti i carceri femminili. Quelli di massima sicurezza «dove non c?erano asili nido, né erano previsti colloqui se non con un vetro di mezzo, né niente di niente. Eravamo la costola d?Adamo del ministero di Grazia e giustizia», ricorda Angela, «sono stati anni in cui il carcere doveva annientarci e spesso ci riusciva. Poi sono arrivata a Opera, ma è stato duro lo stesso perché il carcere per una donna è ancora più duro, devi rinunciare a tutto, ai sentimenti, alle emozioni, e quasi sempre alla maternità. C?è stato un periodo in cui ho desiderato avere un figlio, oggi sono contenta di non averlo avuto perché vivo in un limbo, non sono libera né prigioneria e non avrei mai potuto garantire l?affetto necessario a mio figlio». Angela, che in carcere si è laureata in Cinematografia e ha fatto un corso di musicoterapia, vorrebbe lavorare con i bambini, magari insegnare. «In galera elimini tutto, anche il corpo diventa qualcosa di amorfo, quasi inutile. Il primo volontario l?abbiamo visto nel 1993, era la prima persona che portava dentro il mondo. Fra donne detenute c?è solidarietà, ma si tratta di un?alleanza strategica per non soccombere. Io, per esempio, ho sofferto molto a causa della logica del branco che forse è la stessa che ha patito Silvana, la detenuta che si è uccisa ad Avellino. Se non ti assoggetti agli ordini della capetta di turno, vieni reclusa due volte: dal carcere e dal gruppo che ti vieta di partecipare a tutte le attività. Non si può mai esprimere un giudizio su chi si toglie la vita in galera, ma ci si può chiedere perché chi le stava accanto ( a Silvana Giordano, ndr) non se ne è accorto. Oggi ci vorrebbe uno spazio di affettività, perché la solutudine di una donna in carcere è tanta e a volte non basta coltivare la propria interiorità, darsi delle motivazioni per andare avanti. Oggi le sezioni si sono aperte a corsi di formazione professionale, a progetti e scorrono tanti soldi. Manca però sempre l?elemento fondamentale: la possibilità di non perdere i propri sentimenti, il bisogno di coltivare emozioni e la libertà interiore». ?

Per le straniere
non c?è speranza

Ines è argentina, ma non è mai riuscita ad accedere alle misure alternative. Appena apre bocca dice di non capire perché i detenuti non possano essere ammessi al lavoro volontario all?esterno, se per legge si deve favorire la loro risocializzazione. «Lavoro all?interno della sezione femminile di San Vittore, a fianco dei volontari», spiega Ines, «dove si adoperano per migliorare le condizioni di noi extracomunitari. Ma per noi non esiste la parola reinserimento, né benefici di legge. All?interno partecipiamo a qualsiasi attività di formazione, ma il reinserimento e l?integrazione esistono solo nelle celle». Lei che a San Vittore è amata per la sua passione, la cartomanzia, e dentro ha trovato amici, affetti e solidarietà, non smette mai di guardare alla realtà con lucidità. «Dentro va tutto bene, ma poi? Una volta uscite di galera, ci troveremo davanti a un bivio: o rimetterci sulla strada o tornare alla miseria dei nostri Paesi di origine. La società sta diventando multietnica, ma non per le ex detenute, ne sono certa. Perché se il mondo si ritrae, spaventato, davanti a un ex carcerato italiano, cosa crede che faccia davanti a delle straniere finite in carcere per spaccio o furto? Per noi il futuro proprio non esiste». ?

Il grido di mia figlia
compagna di cella

Per lei il Tribunale di sorveglianza e la direzione del carcere di San Vittore hanno elasticizzato la legge, facendo diventare le ore che passa fuori in compagnia della figlia ?parte dell?atttività trattamentale?. Ormai a San Vittore la storia di Marzia Belloli e di sua figlia, la bellissima Carolina, è una leggenda. Marzia Belloli, un ergastolo sulle spalle, ha partorito e ha cresciuto Carolina in carcere. Dal 1989 esce di giorno a lavorare, ma da quando la bimba ha compiuto tre anni, può stare con la figlia solo per qualche ora rubata. «Quando Carolina ha compiuto un anno», ricorda, «ci siamo presentate a San Vittore, ma la nostra pratica non era ancora arrivata (secondo la legge una detenuta che partorisce ha diritto alla sospensione della pena fino al primo anno di età del bambino, ndr). I carabinieri sono venuti a prenderci solo due mesi dopo, così è iniziata la galera per Carolina». Marzia Belloli approffitta di ogni occasione per raccontare l?odissea dei bambini-detenuti e oggi è diventata la voce paladina delle 56 madri-detenute d?Italia. «All?inizio fu facile ambientarsi per lei, la cella era la sua casa. Poi ha cominciato a comportarsi come una piccola detenuta e quando voleva uscire dalla cella strillava: ?Rotonda!?. Oggi il suo urlo di dolore è cambiato. Al terzo anno di età ha dovuto lasciare il carcere e quando me ne devo andare piange e mi dice: ?Per favore, non te andare, resta con me, ancora un pochino?. Il problema di fondo è solo uno: i bambini hanno bisogno dei loro genitori e se fa senso vedere un bambino dietro le sbarre che dice ?Apri, apri!?, non si può immaginare cosa voglia dire dopo, quando il bambino deve staccarsi dai propri genitori». ?

Da vent?anni lavoro
dietro le sbarre

Vent?anni di carcere alle spalle, Maria Grazia Grazioso, oggi è direttrice del complesso penitenziario fiorentino, Solliciano, che ospita mille detenuti. Ma lei è soprattutto fautrice e ideatrice dell?istituto di custodia attenuata per donne tossicodipendenti di Empoli. Venti ragazze toscane che vivono in un regime comunitario, con celle aperte tutto il giorno, poca vigilanza e molta rieducazione.«Credo che si debbano costruire degli istituti femminili perché il carcere, per antonomasia, è un?istituzione violenta, maschile dove sopravvive solo chi comanda e assoggetta gli altri. Ci vorrebbero carceri con regolamenti meno rigidi, che diano alle detenute la possibilità di ricominciare da capo, mantenendo contatti con il mondo esterno, con la famiglia e soprattutto con i figli», spiega la Grazioso. «Una volta le detenute erano donne che avevano commesso delitti contro i mariti o i padri, frutto di violenze domestiche. Oggi invece sono soprattutto tossicodipendenti, straniere, nomadi, donne a cui bisogna fornire degli strumenti per tornare in seno alla società. Sono in altre parole specchio di quello che succede nella società e nelle sezioni maschili. Le donne soffrono molto di più la reclusione forzata, perché sono meno inclini al compromesso, più ribelli, patiscono le costrizioni, le privazioni degli affetti, i sentimenti. È anche vero, però, che è più facle instaurare un rapporto reale di fiducia. Mi sono battuta molto perché anche nella carceri ci fossero pari opportunità. Così è nato Empoli, un esperimento pilota che spero venga esportato in tutt?Italia perché ci deve essere spazio per una detenzione diversa. Rispetto alle madri-detenute, cerco sempre di fare il possibile affiché i bambini possano stare fuori dal carcere anche durante i primi tre anni di vita, perché non si può marchiare degli innocenti». Una vita dedicata al carcere, quella della Grazioso, e un lavoro che è diventato una missione: umanizzare il carcere. «Certo come donna è difficile avere a che fare con i drammi della maternità, degli affetti, delle famiglie disgregate dalla detenzione. Così a volte mi sdoppio, la loro tragedia mi coinvolge e quando guardo i bambini dietro le sbarre, mi si stringe il cuore…».

Sì, voglio vincere
l?ultima battaglia

Giovanna Pugliese, dieci anni passati a Rebibbia, dove il volontariato ha trasformato il carcere in un atelier creativo, fucina di idee e battaglie di civiltà, non ha perso smalto. «Qui abbiamo fondato il giornale ?Ora d?aria? e l?associazione omonima», ricorda, «abbiamo realizzato il possibile e anche l?impossibile, soprattutto nel carcere femminile perché le detenute sono più creative. Rebibbia femminile, oltre a esser l?unico carcere ?rosa? autonomo, è diventato un modello, un istituto all?avanguardia. I problemi però rimangono quelli di ogni carcere. Qui come altrove le detenute non possono usufruire di uno spazio di affettività. Questa è la nostra ultima battaglia e vogliamo vincerla. La legge è in Parlamento e spero che, dopo il suicidio della Giordano, i politici non continuino a temporeggiare». Giovanna Pugliese, anima e mente di un?associazione di volontariato penitenziario della prima ora allarga le braccia perché la sofferenza in carcere è così grande che si arriva sempre troppo tardi. ?

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