Corpi civili

Noi, costruttori di pace fra la Grecia e Medellín

I volontari del Cnesc si sono incontrati a Roma per fare il punto sulla sperimentazione del progetto. Martino racconta la sua esperienza di servizio civile internazionale in Colombia dove si è occupato di accompagnamento scolastico e formazione. Maddalena e Silvia invece sono state a dare sostegno ai migranti dei campi profughi di Atene

di Alessio Nisi

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«Mi chiamo Martino Buran ho 30 anni vengo da Recanati in provincia di Macerata e ho appena concluso la mia esperienza nei Corpi civili di pace a Medellín, in Colombia». Appena due giorni fa. Biondo, capelli corti, maglietta blu (quella con la mano del Cnesc – Conferenza nazionale enti per il Servizio civile), con le maniche corte per sfidare il caldo ottobre di Roma. Si presenta così al punto organizzato al Roma Scout Center sulla sperimentazione e sul futuro dell’istituto dei Corpi civili di pace. Pochi fronzoli e tanto da raccontare. «Ho studiato a Bologna relazioni internazionali: sono sempre stato interessato alla politica internazionale e alle dinamiche mondiali». 

Con questa curiosità, Martino, dopo la triennale, fa il servizio volontario europeo in Polonia. «Lavoravo per una piccola ong che si occupava di accoglienza migranti». Segue tappa a Torino, per la specializzazione «in migration studies», e un’altra in Ecuador, dove si è impegnato nel servizio civile universale, «anche lì mi sono occupato di migranti, soprattutto venezuelani e colombiani». Occuparsi di migranti? «Sì dare il mio piccolissimo contributo, una goccia in un oceano».

Se vogliamo un mondo diverso iniziamo a investire veramente nella non violenza. I Corpi civili di pace non sono sicuramente la soluzione, ma è un buon inizio per cambiare il mondo in cui viviamo

Martino Buran – volontario nei Corpi civili di pace a Medellín

Gli altri volontari insieme

Mentre ripercorre alla velocità della luce mesi e, perché no?, anni di vita a servizio degli altri, accanto a Martino passano gli altri volontari dei Corpi civili di pace: 18 progetti in tre anni, 5 enti a supporto (tra cui Caritas Italiana, Focsiv e Associazione comunità Papa Giovanni XXIII), 18 paesi coinvolti, 24 mila adulti che hanno beneficiato dell’azione dei volontari (tra cui quasi 2 mila minori e 1700 donne).  

«I Corpi civili di pace», spiega, «sono un progetto sperimentale e questo era il terzo e ultimo anno. Siamo arrivati al momento in cui si deve decidere se lo strutturiamo e lo istituzionalizziamo o semplicemente lo lasciamo lì come un’esperienza».

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Martino Buran, volontario nei Corpi civili di pace a Medellín, in Colombia

Dove esiste un conflitto reale

E i Corpi civili di pace? Per Martino sono stati «la continuazione ideale di un percorso». E hanno una loro specificità. Che nel suo caso, come racconta a VITA, «è stato soprattutto andare in un contesto dove esiste un conflitto reale. Ero a Medellín a La Sierra, un quartiere marginalizzato dove ci sono pochissime opportunità, dove la violenza viene normalizzata, dove ci sono processi di esclusione e autoesclusione costanti, dove c’è un gruppo armato che controlla il quartiere».

Non solo armi. In questo quadro, spiega «non si spara più in strada come 15 anni fa, ma c’è un conflitto economico e sociale dove le categorie più vulnerabili, ad esempio bambini, adolescenti, donne e anziani vengono costantemente esclusi e marginalizzati».

Facevo accompagnamento scolastico

In particolare, Martino nei suoi 11 mesi trascorsi in Colombia si è occupato di «trabajo social. Lavoravo principalmente con i bambini. Facevo accompagnamento scolastico. Lì era comune che ci fossero bambini, anche di 8 10, anche 12 anni, che non sapessero né leggere né scrivere». Una situazione aggravata dall’emergenza Covid, che «ha creato problematiche pesanti: per quasi due anni quasi i ragazzini non sono potuti andare a scuola e spesso non avevano un tablet un computer a casa».


Scuola, ma anche formazione. «Abbiamo organizzato anche dei corsi per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro dedicati ai ragazzi». Perché altrimenti, senza un futuro, «vedono nella criminalità organizzata l’unica soluzione».

Tornare in Italia? «È stato intenso. Questa volta è stato anche più difficile: mi sono sentito parte della comunità dove vivevo, uno degli aspetto che distingue i Corpi civili di pace».

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Maddalena Fabbi, volontaria nei Corpi civili di pace in Grecia

Nei campi profughi in Grecia, con Maddalena

Da Medellín ad Atene, Maddalena Fabbi, 26 anni, racconta che, dopo la laurea in Relazioni internazionali a Pavia e diverse esperienze all’estero, «volevo continuare il mio percorso sulla migrazione». Trovato il bando sui Corpi civili di Pace, ha scelto il progetto della comunità Papa Giovanni XXIII, «che in Grecia si occupa di dare un primo supporto psicologico ai richiedenti asilo nei campi profughi e allo stesso tempo di fare monitoraggio di violazioni dei diritti umani». Ad Atene, nei cui dintorni, «esistono 6 campi profughi», Maddalena ha trascorso 11 mesi,

Fare primo supporto psicologico «vuol dire», spiega, «trascorrere del tempo con i migranti e dargli uno spazio sicuro e confortevole per raccontare la loro storia e per rilasciare loro frustrazione».

Essere nei Corpi civili di pace, aggiunge, «ti dà la possibilità di entrare nelle zone di conflitto e di fare interposizione. Ti permette di essere «una forza buona», al servizio del dialogo tra posizioni contrapposte.

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Silvia, tra i 104 ragazzi che hanno preso parte alla sperimentazione dei Corpi civili di pace

Abbiamo prestato le nostre orecchie

Anche Silvia, come Maddalena, fa parte della comunità Papa Giovanni XXIII e ha seguito il progetto in Grecia. «Vicinanza e stare con le persone», racconta il primo pilastro dell’iniziativa, «abbiamo svolto attività di supporto psicologico, che per noi è stato scoprire il loro mondo. Ecco, noi abbiamo prestato loro le nostre orecchie, non avevamo niente di concreto, ma il nostro tempo sì». Il secondo si è concretizzato «in attività di interposizione non violenta», in un contesto «altamente conflittuale, violento e razzista».

Essere presenti e testimoni «ci ha permesso di scontrarci con un grande specchio di verità e realtà». E poi il lavoro con «le altre associazioni. Un lavoro di network e di rete che è stato fondamentale» e terzo «il monitoraggio dei diritti umani. Sì, la Grecia è stata una grande prova».

In apertura e nel testo foto di Alessio Nisi

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