Mondo

Noi che potevamo essere Saman

Quattro ritratti di giovani musulmani alle prese con i problemi dell'integrazione: il conflitto con le famiglie e la comunità di origine, la società che spesso le guarda e le giudica senza conoscerle, la voglia di emergere nello studio e nella professione. Siamo entrati nel mondo dell'egiziana Marwa, della bengalese Tashina della siriana Sara e della tunisina Takoua

di Asmae Dachan

Con il passare dei giorni si fanno sempre più fragili le speranze di ritrovare in vita la giovane Saman Abbas, la diciottenne di origine pakistana che si teme sia stata uccisa dalla sua stessa famiglia. Anche la ricerca del suo corpo sin qui non ha dato esito. Le indagini proseguono e prosegue anche un acceso dibattito su questa drammatica vicenda, che spesso risulta però risulta viziato da pregiudizi, approssimazione e persino odio. È importante imparare a parlar con e non solo parlare di. Parlare con ragazze di origine migrante, che possano raccontarsi e spiegare come si vive a cavallo tra due culture, in un confronto non sempre facile. Ne abbiamo intervistate quattro, Marwa, di origine egiziana, Tashina di origine bengalese, Sara, di origine siriana e Takoua, di origine tunisina.

Marwa

Marwa Mahmoud è cittadina italiana dall’età di diciotto anni, Consigliera comunale del Comune di Reggio Emilia, presidente di una commissione consigliare che si occupa di pari opportunità e relazioni internazionali e attivista per i diritti umani, civili e sociali, nonché madre di una bimba di dieci anni. Indossa sempre turbanti colorati e il suo sorriso è il suo più bel biglietto da visita. Trovarla libera non è mai facile, tra i suoi mille impegni ha però voluto darci la sua testimonianza.

«Attraverso la mia candidatura e la mia elezione credo che i miei genitori abbiano avuto una sorta di riscatto sociale e culturale rispetto a quello che è stato il loro percorso migratorio», racconta Mahmoud. «Credo che i pregiudizi facciano parte della mente umana, ognuno si crea delle categorie mentali per definire la diversità che ci circonda. Quando poi ci si trova faccia a faccia con la diversità o ci si apre, o si ha paura e si è diffidenti. Certi sguardi, specie nella realtà provinciale, hanno caratterizzato molti momenti della mia gioventù; adesso so gestirli in modo più consapevole. Io incarno molte diversità, sono una giovane donna di origine migrante, musulmana, col velo, che ricopre una carica istituzionale; molti non lo accettano e cercano di ricondurmi a certi cliché». La Consigliera è da anni impegnata nella battaglia per lo Ius culturae. «La cittadinanza permette di accedere a opportunità che da stranieri sono precluse e questo penalizza molti giovani nati e cresciuti qui che si trovano davanti a barriere normative. Pensando al caso di Saman, credo che favorire condizioni che permettano a queste giovani di svincolarsi a livello legale, potrebbe salvare e prevenire altre tragedie. Non essere subordinate alle famiglie, che sia il padre, o il fratello o ogni altra figura maschile è fondamentale. Sembra che la giovane sia tornata a casa per recuperare i documenti che le avrebbero permesso di spostarsi liberamente», afferma con convinzione.

L’emancipazione dalle figure maschili è un processo fondamentale anche per le donne italiane vittime di abusi, a maggior ragione per le donne straniere che sono legate dai documenti al vincolo famigliare. «Questo ennesimo femminicidio, col pretesto di un matrimonio forzato, deve spingerci a creare un osservatorio, perché è grazie ai dati, ai numeri che si possono attuare politiche efficienti. Bisogna affiancare alle azioni dell’accompagnamento delle donne a presentare denuncia anche una cultura della tutela di chi ha subito violenza. È necessario che una donna che denuncia sappia che non è sola», sottolinea Mahmoud. «La speculazione su questo episodio di cronaca nera è vergognosa, bisognerebbe indagare su ciò che non ha funzionato per prevenire il reiterarsi di casi simili. Una politica che cerca di fare ideologia e campagna elettorale è malsana. C’è una vera incapacità di avere chiavi di lettura per affrontare temi simili. L’Emilia-Romagna, insieme ad altre regioni, ha una forte componente di cittadini stranieri ed etnicizzare questo reato, definendolo il fallimento delle politiche di integrazione anziché rattarlo come un femminicidio è sbagliato. Bisogna lavorare sulla prevenzione della violenza di genere in ogni contesto. Il tema del matrimonio combinato e forzato esiste e va trattato nella sua drammaticità e complessità, non serve a nulla parlare di "loro cultura"», dichiara la rappresentante comunale. «Anche tra di noi ci sono persone che non necessariamente vogliono fare questa battaglia. Non hanno la voglia, la salute mentale, la forza di battersi per questi temi e questo va rispettato. Tendenzialmente si pensa che chi ha vissuto un certo tema, debba battersi per questo tema, ma non è sempre così. È una consapevolezza che ho maturato negli ultimi anni, ho visto persone deluse che hanno smesso di lottare, altre troppo ferite per farlo. Chi ha ancora la forza di lottare, va avanti», conclude Marwa Mahmoud.

Tashina

Tashina Us Jahan di origine bengalese, è arrivata in Italia all’età di undici mesi, studentessa di Biologia all’Università Politecnica delle Marche, lavora ad Ancona nell’azienda di famiglia che si occupa di colorazione navale. Sul suo profilo Facebook alterna foto in abiti tradizionali, che sfoggia orgogliosamente, con altre in cui indossa un look cosiddetto occidentale. È attivista dell’Associazione Bangladesh Marche, con cui da sempre è impegnata per promuovere l’integrazione; di recente ha avviato una nuova iniziativa per l’insegnamento della lingua italiana ai connazionali. La lingua è il veicolo principale per inserirsi nella società, e con fierezza Tashina racconta che l’80 per cento delle persone che la seguono sono donne.

«L’aiuto che la nostra associazione offre è di varia natura, dalla richiesta di documenti al sostegno alle donne che hanno bisogno di familiarizzare con un contesto molto diverso da quello di provenienza». Tashina crede molto nell’incontro-confronto tra culture diverse, per conoscersi a vicenda e capire come ci si comporta in Italia, quali sono le procedure legali, ma anche quali sono le consuetudini locali. La giovane si confronta spesso con richiesto di aiuto da parte di donne in situazione di difficoltà, vittime di oppressione e di abusi. «Non è una questione di una sola cultura, quella contro il patriarcato è una battaglia a livello globale, che nessun Paese al mondo può affermare di aver davvero vinto finché ci sarà anche solo una donna abusata o privata dei suoi diritti. Di certo in certi contesti questa lotta è ancora all’inizio, il cammino è lungo e pieno di difficoltà. In Italia la legge c’è, il sostegno sociale c’è e il nostro compito è aiutare queste donne a contattare le associazioni che possono dare loro sostegno a livello territoriale. Il mio ruolo è soprattutto di dare loro un sostegno morale, di mostrare loro che ho le stesse origini, che sono “una di loro” e sono riuscita a vivere liberamente, mi sono realizzata. Va fatto un lavoro a livello di cultura ed educazione, le donne devono avere una formazione, conoscere i propri diritti per non finire ostaggio di una sottocultura oppressiva. Il sostegno che nel mio piccolo offro non è solo locale, ma anche a livello nazionale. L’ultimo caso è stato quello di una donna che abita a Napoli che mi ha chiesto aiuto e che non conosceva affatto l’italiano e non sapeva neppure il suo indirizzo di casa. Abbiamo attivato la macchina del sostegno a distanza e l’abbiamo aiutata a uscire da quel contesto di abusi».

Lavorando nel sociale la studentessa incontra continuamente persone diverse. «La maggior parte degli uomini non sono “cattivi”, amano le proprie famiglie e vogliono il bene per i propri figli e figlie, mi contattano perché vogliono che imparino la lingua, che si integrino. Spesso passano molte ore a lavoro e hanno bisogno di qualcuno che faccia un po’ da ponte tra le famiglie e la società. Se dovessi stimare una percentuale direi che gli abusanti, gli uomini chiusi e con una mentalità retrogradi sono circa 20%. Una percentuale ancora troppo alta. Pensando a Saman vedo una ragazza di diciotto anni che era consapevole dei suoi diritti da cittadina che vive in Italia e che ha cercato rifugio nelle istituzioni. Saman ha adottato il comportamento migliore di fronte a una famiglia abusante, ha denunciato, si è allontanata dalla famiglia, ha chiesto aiuto. Nessuno poteva aspettarsi un epilogo tanto disumano», conclude amareggiata l’attivista.

Sara

Sara El Debuçh è nata a Damasco ma è sempre vissuta in Italia, a Roma. Nei suoi grandi occhi verdi c’è tutta la bellezza e la sofferenza della Siria. «Ho cominciato a fare cinema dall’età di diciassette anni, ma lo facevo di nascosto perché per i miei genitori era inconcepibile, trovavano dispregiativo il fatto che fossi attrice, che mi mettessi in mostra per essere pagata, lo consideravano come un vendersi nonostante nei miei ruoli affrontassi tematiche sociali», racconta con una tenacia velata di malinconia. «Io ho continuato a seguire corsi, andare in tv e fare spettacoli di nascosto e loro lo scoprivano solo quando veniva pubblicato qualcosa. Il mio esordio cinematografico è stato per caso, ma lì ho capito che era quello che avrei voluto fare nella vita. All’epoca indossavo il velo. Cercavano di non farmi uscire di casa, di ostacolarmi, ma riuscivo ad averla sempre vinta grazie alla mia determinazione. Poi ho tolto il velo e ho cominciato ad accettare anche altri ruoli. Sia mia madre, sia mio padre, venendo da famiglie semplici e legate alle tradizioni, temevano il giudizio della comunità. Per molte persone commettevo peccato, erano molto duri nei loro giudizi contro di me. Nessuno capiva i miei sentimenti.Quando ho tolto il velo non l’ho fatto perché lo ripudiavo, ma per una scelta di coerenza, perché ero stufa di compiacere gli altri. Per me credere significa avere un rapporto sincero con Dio. Quando ho messo il velo avevo quattordici anni, ero piccola e venivo bullizzata dai compagni, ma non volevo dare un dispiacere ai miei. Ho deciso di toglierlo proprio perché volevo essere trasparente con Dio, con i miei sentimenti e i miei pensieri. Mi sento più coerente con la fede ora, osservo il Ramadan, prego e mi sento felice, vivo una continua ricerca interiore».

La giovane mostra una grande forza interiore nella sua testimonianza. «Ci sono stati momenti in cui sono stata aggredita fisicamente in ambito famigliare perché loro non accettavano le mie scelte; ora ne parlo tranquillamente perché abbiamo superato quelle tensioni, loro hanno capito certe cose e io ho capito loro, aiutandoli a cambiare mentalità, anche se certi episodi feriscono molto e non si dimenticano. Ho trovato la forza di gridare contro mio padre per fargli capire che stava sbagliando. Nemmeno in Siria esiste più una mentalità così. Mia madre che mi critica perché in una determinata scena mi si vede un pezzo di gamba, è poi la prima che guarda le serie TV arabe. Ho imparato ad accettarli per come sono, ho capito che a un certo punto non sono i genitori che ti crescono, sei tu che li cresci e sei responsabile nei loro confronti. Purtroppo, non c’è ancora stato un avvicinamento tra me e i miei, c’è affetto, quello sì, le cose stanno cambiando anche grazie a Flavio, mio marito, che ha aperto loro gli occhi su un mondo diverso. Mi piacerebbe un giorno sapere che sono orgogliosi di me. Per ora c’è quasi una rassegnazione». Insieme agli studi cinematografici, dopo le scuole superiori Sara si è iscritta all’università. «Anche la laurea in Giurisprudenza l’ho conseguita per compiacerli, perché loro ci tenevano moltissimo. È stata anche una sfida personale, per dimostrare a me stessa che potevo farcela, che avrei potuto realizzare ogni traguardo che mi ponevo. Lavoro anche con bambini disagiati che vengono da esperienze di guerra, aiutandoli a integrarsi. Il mio futuro lo vedo comunque nel cinema. Il mio prossimo impegno è un documentario sul cinema siriano che verrà girato a Berlino. Chi viene aggredito e discriminato deve sapere di poter contare sulla società civile e deve trovare la forza di denunciare e ribellarsi. So che è difficile, ma proprio perché l’ho vissuto sulla mia pelle, dico che si può e si deve fare. Tacere e soccombere non fa che alimentare la prepotenza maschilista e il razzismo. Quello che consiglio a chi vive situazioni di abuso e discriminazione è di opporsi, di chiedere aiuto. Se Saman fosse stata mia amica l’avrei ospitata a casa mia, avrei fatto di tutto per aiutarla proprio perché so cosa vuol dire avere paura».

Foto credit @Stefano Romano

Takoua

Ultima, ma non ultima, incontriamo Takoua Ben Mohamed, di origine tunisina, impegnata nella promozione del suo nuovo libro, una graphic novel autobiografica intitolata “Il mio migliore amico è fascista”. L’artista è arrivata in Italia a Valmontone all’età di otto anni, graphic journalist, specializzata all’Accademia di cinema di animazione, ha fatto anche studi di giornalismo. Collabora con diverse riviste per bambini e per adulti e ha pubblicato numerosi libri. Insieme a due dei suoi fratelli ha fondato una casa di produzione cinematografica tra Londra e Roma.

«Sono arrivata in Italia nel ‘99 e come tutti i bambini mi sono ambientata facilmente e non ho subito il trauma del trasferimento. I nostri vicini, che io chiamavo nonna Ada e nonno Giovanni, erano per noi parte della famiglia e in quel contesto della provincia romana vivevamo senza problemi. All’inizio il mio unico mezzo di comunicazione era il disegno, perché non avevo ancora imparato l’alfabeto latino. Le cose sono cambiate dopo l’11 settembre 2001, e dopo il nostro trasferimento nella capitale. Ricordo gli sguardi diffidenti, le parole velenose contro me e la mia famiglia. Era un momento in cui era cambiato il mondo e per me è stato tutto piuttosto devastante. Questo però non mi ha abbattuta, anzi, mi ha spinta a impegnarmi e lottare per i diritti umani, a partecipare a incontri e manifestazioni. La mia esperienza famigliare, il modo in cui abbiamo vissuto la storia della dittatura in Tunisia mi hanno resa molto sensibile e attenta a certe tematiche e questo ha fatto nascere in me la passione per il disegno e il graphic journalism di denuncia».

La scelta di andare controcorrente non l’ha mai spaventata. «Ho girato il mondo da sola, dagli Stati Uniti all’Asia Centrale, non ho mai avuto nessun problema con loro, anzi. Anche quando ho scelto la scuola ho fatto di testa mia, ho sempre seguito il mio istinto, anche quando ho sbagliato. A livello comunitario ho ricevuto a volte delle critiche da parte di chi non riteneva l’arte un vero mestiere. Da giovane donna figlia di migranti e musulmana, cresciuta in Italia, ho sempre ascoltato solo me stessa, senza farmi scoraggiare, né temere i giudizi per come mi vesto, per come vivo, per chi frequento. Molti amici non hanno avuto invece famiglie così aperte, perché le loro famiglie non capivano che i loro figli hanno una mentalità diversa dalla loro, essendo nati e cresciuti qui. Le due generazioni dovrebbero comunicare di più. Forse, come cosiddette secondo generazioni, ci siamo concentrati molto su come contrastare il problema del razzismo in Italia, su come affrontare lo sguardo occidentale su di noi, ignorando i conflitti interni alle comunità e tra le generazioni. Serve, quindi, comunicare, venirsi incontro, cercare di comprendersi a vicenda, con la consapevolezza di essere cresciuti in contesti diversi», afferma con sicurezza. «Ho visto amiche scappare di casa perché ostacolate o minacciate dalle famiglie. Per fortuna sono casi isolati, che vanno però affrontati con la dovuta attenzione. Nei casi di minaccia non ho dubbi, allontanarsi dal contesto abusante, denunciare, affidarsi a gente specializzata e competente, che sia in grado di garantire protezione. Credo che noi figli di migranti stiamo costruendo un ponte, anche se il processo di costruzione è lento. Credo che, più che dialogare con gli adulti, come seconde generazioni dobbiamo parlare coi giovani e giovanissimi perché l’Italia sta diventando interculturale anche se molti non lo vogliono vedere. C’è una quotidianità che vivono i figli di migranti e i ragazzi autoctoni che rappresenta una nuova realtà, una “normalità” che molti faticano, da una parte e dall’altra, ad accettare».


Photo by pisauikan on Unsplash

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