Famiglia
No, i nativi digitali non esistono. Parola di pedagogista
Il 58,4% dei bambini 6-10 anni possiede un device personale. Così come il 14% dei più piccoli. Eppure, osserva Cosimo Di Bari, pedagogista dell’Università di Firenze, «i bambini non sono nativi digitali». Il fatto di saper scattare una foto o far partire un video «non è una “competenza” quanto piuttosto “una confidenza” con la tecnologia». Secondo l’esperto i genitori dovrebbero sensibilizzarsi sui temi della Media Education, fin dai corso preparto e i bambini. «Occorre evitare che gli schermi diventino moderni ciucci digitali»
«I bambini non sono nativi digitali». Anzi, «i nativi digitali proprio non esistono». Ne è convinto Cosimo Di Bari, ricercatore di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Firenze.
Secondo l’esperto, che è anche autore del testo uscito proprio quest’anno con Uppa, intitolato per l’appunto I nativi digitali non esistono, «pensare che i bambini siano nativi digitali semplicemente perché “stanno buoni” con lo schermo o perché sono in grado di ricercare il contenuto che desiderano su tablet, pc, cellulari, col sintetizzatore vocale prima ancora di saper scrivere produce un enorme fraintendimento: quello secondo cui le nuove generazioni, essendo nate in un contesto caratterizzato dalla presenza degli schermi, sarebbero già alfabetizzate e tecnologicamente competenti».
Nello specifico: «saper scattare una foto con un dispositivo digitale o far partire un video non è una “competenza” quanto piuttosto una semplice confidenza con l’apparecchio tecnologico, proporzionata al tempo di utilizzo».
Saper scattare una foto con un dispositivo digitale o far partire un video non è una “competenza” quanto piuttosto una semplice confidenza con l’apparecchio tecnologico, proporzionata al tempo di utilizzo
— Cosimo Di Bari
Secondo uno studio dell’ospedale Pediatrico Bambino Gesù insieme all’Università La Sapienza e a quella di Tor Vergata (i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Sleep Medicine), il tempo trascorso davanti a uno schermo in sette bambini su dieci è più che triplicato per motivi scolastici (da poco meno di un’ora al giorno a tre ore e mezza) ed è raddoppiato per uso ricreativo (da un’ora e trequarti a tre ore). (Ne avevamo scritto qui).
Promuovere il digitale a scuola
Un altro fraintendimento, secondo Di Bari, «è credere che sia sufficiente introdurre l’uso del cellulare, delle app, della LIM (La lavagna interattiva multimediale) per promuovere la competenza digitale». Al contrario, chiarisce, «io ritengo che promuovere la competenza digitale significhi favorire un rapporto attivo con i contenuti, saperli ricercare e selezionare. Questo vale per le fonti web, per i social network, per gli strumenti di scrittura collaborativa come per l’intelligenza artificiale».
Il recente rapporto Global education monitoring report, pubblicato da Unesco a fine luglio (Su VITA lo abbiamo raccontato in questo articolo) rimarca chiaramente come la tecnologia non sia né un veleno né una panacea: «così come la penna può essere usata in modi differenti (per scrivere una lettera d’amore, ma anche per scrivere un testo pieno di odio o perfino per infilarla nell’occhio a chi sta vicino), allo stesso modo gli strumenti digitali necessitano di essere pilotati con consapevolezza, criticità e creatività», osserva il ricercatore. Che poi sottolinea come, rispetto agli strumenti analogici, quelli digitali richiedano una maggiore consapevolezza: «mentre una penna che rimane appoggiata sul tavolo non produce nessun “dato”, uno smartphone che lasciamo acceso, anche se inutilizzato, tende a registrare dati, abitudini, posizioni e questo rende urgente che il fruitore sia consapevole degli interessi che animano l’attuale mondo tecnologico, per usare gli strumenti senza farsi usare».
Dai due anni è possibile promuovere una graduale scoperta
Questi compiti possono essere promossi fin dalla prima infanzia. «E, se nei primi due anni di vita (come rimarcato dall’Accademia Americana dei Pediatri) sarebbe auspicabile interagire il meno possibile con gli schermi, perché il bambino necessita di sviluppare competenze interagendo con l’ambiente attraverso esperienze sensoriali che utilizzino tutti e cinque i sensi, dai due anni è possibile promuovere una graduale scoperta, gestendo attentamente i tempi e i contenuti; favorendo l’interiorizzazione di regole e abitudini sane, che portino il bambino a diventare realmente autonomo (e criticamente autonomo) in vista di quando sarà da solo con lo strumento».
A questo fine, nel testo I nativi digitali non esistono, Di Bari fornisce indicazioni generali per gestire il rapporto tra infanzia e schermi, ma anche suggerisce come, per varie tipologie di contenuto (dalla pubblicità ai cartoon, dalle App alla fotocamera), i genitori possano prevedere attività col digitale che diventino il “pre-testo” per poi fare altre esperienze che arricchiscano i ragazzi e che rinforzino, gradualmente con l’età, la loro competenza digitale.
Secondo una ricerca dell’Università degli studi Milano Bicocca, il 58,4% dei bambini 6-10 anni possiede un device personale, percentuale in netto aumento rispetto al 2020 (23,5%). Anche l’età si è abbassata: il 14,5% dei bambini con età compresa tra 1 e 5 anni ha un cellulare (prima era meno del 10%).
La formazione per i genitori al corso preparto
Inoltre, secondo Di Bari, «è urgente una formazione che parta dagli insegnanti (come spiegato dal rapporto Unesco), ma che poi necessariamente coinvolga le famiglie. E il mio auspicio, come rimarcato nel volume uscito con Uppa, è che si inizi a educare ai media molto presto: i bambini fin dalla prima infanzia; i genitori fin dal nido di infanzia e, perché no, perfino dai corsi preparto».
Il mio auspicio è che si inizi a educare ai media molto presto: i bambini fin dalla prima infanzia; i genitori fin dal nido di infanzia e, perché no, perfino dai corsi preparto
Gli schermi sono moderni ciucci digitali?
È, infatti, proprio in ambito familiare che le nostre abitudini (anche quelle mediatiche) si radicano: ad esempio, si domanda Di Bari, «usiamo lo schermo come un calmante di nostro figlio e quindi come se fosse un ciuccio digitale? Teniamo lo schermo acceso durante i pasti? Mettiamo i nostri figli in competizione con gli schermi per avere la nostra attenzione? Usiamo lo schermo per poterci permettere di fare altro?».
Tutte queste abitudini, osserva l’esperto, «non fanno che incentivare un rapporto passivo con lo schermo e sono in linea con quegli usi non produttivi in ambito scolastico dai quali Unesco vuole metterci in guardia».
Proprio sul tema, l’Università di Firenze sarà capofila insieme all’Università di Bologna e l’Università di Roma la Sapienza di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (Di.Co.Each – Digital Competence in Early Childhood) che aspira a coinvolgere nidi di infanzia e scuole dell’infanzia per promuovere la scoperta delle potenzialità e dei rischi delle tecnologie digitali, cercando di stabilire (anche in collaborazione con i pediatri) un proficuo dialogo con le famiglie.
Foto in apertura Patricia Prudente by Unsplash
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