Non profit
No dumping: una speranza per i poveri
Una riflessione di Antonio Onorati, Presidente del Centro Internazionale Crocevia a sostegno del "No Dumping"
Se c?è una proposta che sembra trovare tutti concordi, a destra come a manca, è quella relativa alla necessità che i ricchi mercati alimentari dell?Europa debbono aprirsi ai prodotti agricoli dei Paesi in Via di Sviluppo.
Senza pretesa alcuna di affrontare l?insieme degli aspetti, anche di teoria economica, che sottintendono questa proposta, fatta propria da una delle dichiarazioni del ?G 8?, ritengo utile mettere in fila una serie di dati ed informazioni capaci di illustrare il nostro dissenso profondo da questo approccio.
La ?liberalizzazione? dei mercati agricoli e della produzione agroalimentare nei PVS (smantellamento di forme di protezione diverse e dell?intervento regolatore dell?offerta da parte dello Stato) comincia all?inizio degli anni novanta ? come misure assortite nei piani di aggiustamento strutturale e nei vari obblighi imposti dalla condizionalità degli aiuti allo sviluppo – e si rafforza dopo la conclusione dell?Uruguay Round con la famosa ?decisione Ministeriale? di Marrakech. Si aprono le barriere per facilitare l?importazione nei PVS di prodotti agricoli e si sostengono, facilitandole, le loro esportazioni agroalimentari.
Abbiamo quindi dieci anni di esperienze di terreno su cui ragionare, dieci anni di applicazioni concrete di questa ricetta.
Si dirà: ma l?Europa e gli USA hanno continuato a sostenere le proprie esportazioni (la regola del 5% di apertura obbligatoria) attraverso politiche aggressive di dumping a colpi di sostegni diretti ed indiretti alle esportazioni. Gli USA e l?Europa utilizzano gli standard sanitari e fitosanitari (Accordo SPS) per tenere lontani i prodotti che fanno concorrenza ad alcuni loro prodotti. Ma il punto non è questo, la questione più grave è quella relativa ad una stabile sicurezza alimentare per i PVS, in particolare per quelli a deficit alimentare. E? su questo terreno che occorre misurare l?impatto delle politiche di sostegno all?esportazione di prodotti agroalimentari dei PVS, qualunque ne sia il prezzo ?giusto? e le condizioni ?di favore? che a questi prodotti fossero accordate.
Vediamo che è successo negli ultimi dieci anni seguendo i dati che risultano da studi di terreno approntati per la FAO da esperti nazionali che, di norma, possono essere considerati figli della cultura neoliberista imperante, quindi non sospetti di cultura gaglioffa antiglobalizzazione.
Secondo i dati relativi al biennio ?95-?97 (quindi vecchi) il Kenya, con oltre il 77 % di popolazione dedita all?agricoltura, con le esportazioni agroalimentari che rappresentano più della metà del totale delle esportazioni del paese, con un settore agricolo che produce un terzo del prodotto interno lordo, ha oltre il 40% della sua popolazione sottoalimentata. Tale trend è in crescita anche secondo dati e valutazioni recenti. ?Delle riforme più radicali (nel processo di liberalizzazione ed estroversione dell?economia del paese) sono state prese all?inizio degli anni ?90..? (Hezron Nyangito, Nairobi – per la FAO). Queste le conseguenze più rimarchevoli: le esportazioni di prodotti alimentari sono aumentate nel decennio ad un ?tasso lineare di 19 milioni di dollari per anno?, mentre le importazioni di prodotti alimentari – che rappresentano quasi il 90% di tutte le importazioni agricole del Paese – hanno seguito una tendenza fortemente ascendente che per il periodo 1985-94 è progredita ad un tasso lineare di 27 milioni di dollari annui e che in percentuale è stata nel periodo 1995-98 quasi del 50% più alta del livello raggiunto nel periodo 1990-94. Il Kenya esporta caffè, tè, prodotti ortofrutticoli e fiori: non è difficile vedere come questi prodotti siano frontalmente concorrenti di produzioni per il consumo alimentare interno.
Molti penseranno che l?importazione di prodotti alimentari, in qualche modo, favorisce i poveri urbani poiché ? è opinione corrente ? che i prodotti importati costano meno anche sui mercati interni. Questo è vero ma solo nel periodo dell?aggressività commerciale che serve a disarticolare la produzione interna o, come spesso succede a certi prodotti europei, quando si collocano sul mercato dei PVS prodotti altrimenti destinati alla distruzione o all?ammasso. Credo che il caso più famoso sia quello delle ali e dei piedi di pollo europei o di altra provenienza venduti in Cina.: da noi uno scarto di lavorazione (cioè un costo) da loro una leccornia (cioè un ricavo)
L?India rappresenta, da questo punto di vista, un buon esempio di una spirale perversa di povertà urbana, insicurezza alimentare, povertà rurale e malnutrizione rurale. Se il contributo dell?agricoltura al PIL era pari al 55% nel 1950 ed è solo del 25% alla fine degli anni ?90 (Manoj Panda e A. Ganesh-Kumar, Mumbai ? per la FAO) ancora oggi il ?70 % delle famiglie rurali e l?8% delle famiglie urbane vivono di lavoro agricolo?.
L?India ha seguito tutti i colori delle rivoluzioni agricole: quella ?verde? del produttivismo, quella ?bianca? per la produzione del latte (con il supporto strategico dell?Unione Europea), e quella ?gialla? per lo sviluppo dell?industria degli oli da seme, molto recentemente. Malgrado l?India abbia comunque dichiarato una politica di sviluppo rivolta all?interno, le politiche liberiste in campo agricolo approntate già agli inizi degli anni novanta hanno consentito un raddoppio delle esportazioni agricole nel periodo 1996-98, con una presenza rimarchevole dei cereali che rappresentano quasi il 45 % – nello stesso periodo ? di tutte le esportazioni agricole.
Le importazioni alimentari, però ?sono aumentate nel periodo 1995-98 del 168 % rispetto al periodo 1990-94?. L?impatto di queste cifre sulla povertà può essere così riassunto: negli anni?80 la povertà aveva avuto una tendenza alla diminuzione, negli anni ?90 ? che hanno visto l?applicazione di vigorose politiche di liberalizzazione – ha avuto – al contrario ? un tendenza visibile alla crescita. Dice la FAO ? I prezzi delle derrate alimentari sono aumentate in modo più rapido degli altri prezzi al consumo? ma, con l?aumento delle importazioni agroalimentari lo spazio di mercato viene occupato dalle produzioni estere, comunque concorrenziali rispetto alla produzione agricola interna.
I poveri urbani hanno difficoltà ad acquistare alimenti, le produzioni locali vanno per prime fuori mercato, i contadini dispongono di meno risorse finanziarie con un evidente impoverimento crescente dei territori rurali che, in fine, si trasforma in insicurezza alimentare e malnutrizione sia per quegli agricoltori che si mettessero a produrre per esportare sia per quei contadini che volessero continuare a produrre per il mercato interno comunque costretti ad incrementare produzioni commerciali, uso di input di produzione e degrado delle risorse naturali a scapito del consumo diretto o locale. Insomma, per esportare frutta in Europa a prezzi competitivi con Spagna, Italia bisogna non produrre per il proprio consumo ed essere ?concorrenziali?.
E non si creda che qui stiamo parlando di agricoltura di sopravvivenza. Quello che si sostiene è che ogni Paese ? definendo il proprio progetto di agricoltura e di sovranità alimentare ? si trova comunque davanti alla scelta dell?estroversione o della costruzione di mercati locali e regionali. Inoltre è fin troppo evidente che la struttura fortemente concentrata della direzione delle multinazionali agroalimentari/chimico/farmaceutico (non solo del Nord sviluppato) ma estremamente dislocata nello spazio e nel tempo delle loro produzioni agroalimentari, con l?accesso facilitato ai mercati ricchi non fa che rafforzarsi e quindi continuare nel processo di distruzione e disarticolazione della produzione agricola familiare e contadina. Materie prime agricole a bassi costi e pagate poco ai produttori locali che, in una logica di totale reciprocità tra diseguali, arrivano nella parte del pianeta dove sono concentrati i modelli di consumo alimentare ricchi ma meno sostenibili, più inefficaci ed inefficienti.
La nostra esperienza pluridecennale nei PVS, nel sostegno all?agricoltura contadina, ci ha fornito molte conferme che la chimera dei mercati ricchi, opera un forte processo di vampirizzazione dei sistemi agrari locali lasciandoli alla mercé dei prezzi essenzialmente politici che le derrate alimentari continuano ad avere sul cosiddetto mercato globale, rendendoli incapaci anche di attivare una strategia di pura sopravvivenza producendo per l?autoconsumo. Così la maggior parte di quel miliardo e duecento milioni di affamati del pianeta si concentra proprio tra i produttori agricoli. Sicuramente un non senso che non può essere affrontato né con la carità né con le buone intenzione ma con forti strumenti di protezione e di sostegno a quell?agricoltura che, basata sul lavoro, è la meglio attrezzata a produrre stabilmente cibo per ogni paese. L?agricoltura familiare e contadina.
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