Politica

No all’Autonomia differenziata, sì a più autonomia ai Comuni

Le disordinate norme del Titolo V hanno favorito una crescita di convinzioni sbagliate sulla maggiore efficienza di una regionalizzazione delle attività pubbliche. È ai Comuni che bisognerebbe dare più risorse e più potere perché possano agire nell’interesse dei cittadini e non si dovrebbe (né a sinistra né a destra dove la parola Italia impera) assecondare le smanie di potere dei Presidenti di Regione

di Marco Musella

Le parole autonomia e identità dovrebbero viaggiare a braccetto così che non si dovrebbe mai parlare di un “diritto ad essere autonomi” se non si è in presenza di una identità precisa, ben riconoscibile e delineata da caratteristiche specifiche che, per aggregazioni politico-istituzionali, dovrebbero affondare le sue radici nella storia e nella cultura di un popolo.

Ecco perché il dibattito sulla autonomia differenziata a me sembra posto in modo sbagliato e anche, spesso, mal poste tante reazioni di critici più o meno preoccupati per il Sud. Sembra quasi che rivendicare l’unità nazionale sia diventato, per uno stranissimo processo di trasformazione della realtà della storia, l’unico modo di tutelare gli interessi del Mezzogiorno e delle sue popolazioni.

L’attenzione, a mio parere, andrebbe incentrata sulla inesistenza (o inconsistenza, ma è più o meno la stessa cosa) delle identità regionali (quasi sempre) e sul fatto che l’autonomia differenziata proposta da Calderoli, e troppo facilmente abbracciata da partiti politici che contengono addirittura la parola Italia nella propria denominazione, sia la consacrazione di un passaggio che diventerà inevitabile, a tanti staterelli senza storia e senza futuro. Senza storia perché ditemi quale storia può rivendicare l’Emilia Romagna – che ha già nel nome la probabile futura spaccatura – o la Campania – per la quale è, per esempio, la storia di Napoli, di Benevento o di Terra di lavoro a poter essere davvero raccontata come identificante; cioè, se in Italia qualcuno deve rivendicare maggiore autonomia di azione sulla base di un identità che ha radici nella storia, non sono certo le Regioni a potersi fare avanti!; non ha futuro l’autonomia differenziata di cui si parla oggi perché presto o tardi nasceranno rivendicazioni di una nuova autonomia differenziata a livello subregionale, anche perché l’egoismo fiscale porta per via diretta a nuove scissioni e divisioni.

Capisco, ma non mi adeguo, che la pandemia ha allargato il potere delle Regioni (con esiti a me sembra nefasti anche sul piano delle politiche in campo sanitario) e le disordinate norme del Titolo V hanno favorito una crescita di convinzioni sbagliate sulla maggiore efficienza di una regionalizzazione delle attività pubbliche condita con un egoistica idea di come deve funzionare un sistema fiscale equo nel nostro Paese (per altro anche essa, come detto, con un futuro di ulteriori conflittualità tra gruppi sociali, territori e comunità varie).

Il tutto sta avvenendo in un Paese che dovrebbe riscoprire la centralità dell’Istituzione Comune e rendere praticabile uno spazio di maggiore agibilità di questa istituzione attraverso una applicazione più piena del principio di sussidiarietà verticale, che molto aiuterebbe anche l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale. È ai Comuni che bisognerebbe dare più risorse e più potere perché possano agire nell’interesse dei cittadini e non si dovrebbe (né a sinistra né a destra dove la parola Italia impera) assecondare le smanie di potere dei Presidenti di Regione e gli egoismi di gruppi sociali ed economici che sembra non capiscano che percorrendo la strada della istituzionalizzazione dell’egoismo si finisce per creare una società più conflittuale e una prosperità economica breve ed effimera.

*Professore ordinario di Economia Politica presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Presidente di Iris Network. È co-direttore scientifico della rivista Impresa Sociale

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