Milano

Niguarda in scena con i suoi bottoni e 80 cittadini/attori

Lo definiscono teatro sociale, ma è molto di più. Il quartiere alla periferia nord occidentale del capoluogo lombardo è protagonista di uno spettacolo che mette insieme le diverse anime che lo popolano. Mentre è in corso la tournée cittadina la regista della pièce “Epopea dell’irrealtà di Niguarda”, Marta Marangoni ci ha raccontato la genesi dell’iniziativa e spiegato che «il teatro è uno strumento anche perché noi facciamo welfare»

di Antonietta Nembri

Un quartiere di Milano e i suoi abitanti in scena per mostrare e raccontarsi. Stiamo parlando di “Epopea dell’irrealtà di Niguarda, uno spettacolo che dopo il debutto al Teatro Elfo Puccini è ora in tournée nei quartieri storici milanesi (i prossimi appuntamenti il 23 ottobre al Cad Diapason e il 15 novembre alla Fermata Clown del mezzanino Dateo). 

Lo spettacolo vuole essere un viaggio teatrale che intreccia realtà e fantasia, raccontando la storia del quartiere di Niguarda attraverso una lente surreale. Un lavoro corale anzi un’esperienza di teatro sociale. Il testo, firmato da Francesca Sangalli, è nato da un percorso laboratoriale che ha coinvolto i partecipanti ed è ambientato in un tempo sospeso. In scena si narrano le vicende di un gruppo di abitanti che, nel corso dei secoli, si confrontano con eventi straordinari e forze divine che minacciano di sconvolgere le loro vite. La comunità è la vera protagonista, rappresentata da un cast eterogeneo di 80 persone di diverse età, abilità e provenienze.

Per comprendere meglio la genesi dello spettacolo, ma anche le relazioni e il lavoro dietro le quinte per costruirlo chi meglio di Marta Marangoni, regista e ideatrice dello spettacolo prodotto da Minima Theatralia e dai Duperdu. 

Come nasce “Epopea dell’irrealtà di Niguarda”?

Se partiamo dall’inizio dobbiamo iniziare da quando ho cominciato a lavorare come attrice al Teatro della Cooperativa con “Nome di battaglia Lia”, la storia di una partigiana proprio del quartiere Niguarda. Sono passati diversi anni, ma studiando e approfondendo le tecniche di Eugenio Barba per coinvolgere le comunità negli anni sono arrivati questi risultati. 

Quindi il teatro sociale, teatro di comunità?

Per noi è uno strumento. Nella nostra azione noi facciamo welfare, uniamo le persone che sono tutte diverse tra loro. Anche se la loro diversità non salta all’occhio. Nel nostro spettacolo c’è tutto questo partendo da un borgo, il quartiere di Niguarda, un centinaio persone (i partecipanti ai laboratori artistici e il cast di 80 persone di diversa abilità, età e provenienza- ndr.). Lavoriamo sulla diversità perché sappiamo per esperienza quanto questo rafforzi la coesione di una comunità, favorendo l’inclusione di persone spesso destinate a restarne ai margini. Il Teatro Sociale di Comunità aiuta tutti a crescere personalmente, grazie al confronto con questa diversità.

Come nasce l’idea dei bottoni che decorano i costumi di tutti gli interpreti?

Abbiamo cercato un oggetto che da un lato promuovesse la creatività e dall’altro fosse simbolico. Per raccoglierli abbiamo fatto un vero e proprio lavoro door to door, appeso volantini nei negozi e poi c’è stato il momento “attaccabottoni”. Che è anche chiacchierare. E in questo sono state protagoniste alcune anziane del quartiere che con il cucire i bottoni hanno superato il rischio della solitudine e dell’abbandono. 

I protagonisti dello spettacolo sono attori professionisti e cittadini del quartiere, come avete fatto a far funzionare il mix?

In questi 12 anni di lavoro sul territorio si sono create relazioni, si è lavorato per la tenuta comunitaria. Possiamo dire di aver agito a cerchi concentrici. E poi il teatro è qualcosa che ti coinvolge. Penso a un ragazzo che ha partecipato al primo spettacolo nel 2015, poi non è venuto per alcuni anni ai laboratori e quando è ritornato ci ha detto “vado dietro le quinte”, “cucio i bottoni”. Abbiamo messo in piedi un gruppo per il babysitteraggio che è poi diventato una scena dello spettacolo. Insomma abbiamo fatto attenzione ai singoli desideri di chi bussa alla nostra porta. Ciascuno è accolto sia che sia un professionista sia che sia un volontario o una persona che vuole fare il corso o che viene per divertirsi, ci sono poi tirocinanti e professionisti così si arriva a un’idea che poi Francesca Sangalli ha scritto il testo trasforma in un copione. 

I laboratori sono il cuore del progetto teatrale…

Sì. Tutto nasce da lì. Il nostro obiettivo non è ricevere applausi di compassione, ma essere apprezzati da un ampio pubblico, grazie anche all’apporto di tanti professionisti. Crediamo che il teatro sia rivoluzionario per le nostre vite e le nostre solitudini: questo percorso è molto più di uno spettacolo, è l’occasione per vedere rappresentata in scena la bellezza della diversità, la forza creativa di questa varia umanità che recita, canta, si racconta e, a volte, sbaglia. Vogliamo offrire al pubblico uno spaccato di comunità che rivela se stessa in una messinscena fra storia e surrealismo. Ogni difetto diventa un valore, non vogliamo fare pornografia del dolore.

In questo spettacolo c’è un cammeo video del figlio di Alejandro Jodorowsky, Brontis, le musiche di Fabio Wolf…

Quello che noi facciamo nei laboratori è elevare la quotidianità di ciascuno anche attraverso il filtro della letteratura, per esempio stiamo già pensando a una prossima messa in scena: The Mary Shelley Picture Show, ci stiamo già organizzando con i trasporti e i volontari perché gli anziani del quartiere hanno bisogno di un passaggio. I laboratori sono aperti a tutti: da chi vuole fare il corso teatrale ma anche a chi vuole imparare semplicemente a parlare in pubblico. In dodici anni abbiamo coinvolto oltre 300 persone, si sono creati rapporti e quando dico che noi facciamo welfare mi riferisco a questo. Ma va sottolineato anche che quello che produciamo e portiamo in scena non è il “saggio” della scuola. Noi produciamo arte.

Tutte le immagini sono tratte dalla prova generale e dalla prima dello spettacolo – foto da ufficio stampa

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