Mondo

Nigeria, sempre peggio!

di Giulio Albanese

Una domenica di sangue, oggi, in Nigeria. Tre musulmani sono stati uccisi nel pomeriggio nella città di Jos da un gruppo di giovani cristiani. Un atto di vendetta avvenuto a seguito delle infuocate manifestazioni di protesta dopo un attentato suicida, avvenuto in mattinata, in una chiesa della principale città dello Stato del Plateau, nel cuore della Nigeria. Secondo le prime testimonianze, i cristiani hanno attaccato alcuni musulmani che passavano nei pressi della chiesa e li hanno pestati fino ad ucciderli. Nel corso delle violenze sono stati anche dati alle fiamme alcuni magazzini appartenenti a commercianti musulmani. Intanto, riguardo all’attentato contro la chiesa, il bilancio ancora provvisorio parla di 6 morti e almeno 35 feriti. Al momento l’attacco alla chiesa non è stato rivendicato, ma a Jos, nello Stato del Plateau, città di frontiera tra il Nord musulmano e il Sud cristiano e animista, la matrice sembra chiara. Gli inquirenti sono convinti che si tatti di un’azione compiuta dal movimento islamico Boko Haram, che sta seminando morte e distruzione nel Paese.

In questo contesto, il fattore religioso si sovrappone, per così dire, alla competizione per la spartizione delle risorse locali su base etnico-regionale. Ecco che allora, mentre il Nord patisce una notevole arretratezza dal punto di vista socioeconomico, il Sud del Paese è certamente il baricentro del potere, non solo in riferimento alle istituzioni federali, ma anche e soprattutto al business del petrolio. Per quanto i Boko Haram siano estremisti islamici, con presunti legami alqadeisti e abbiano come obiettivo dichiarato quello di estendere la sharia – la legge islamica già in vigore in 12 Stati della Federazione – a tutto il territorio nazionale, le ragioni dell’accresciuta attività del movimento vanno ricercate nei rapporti che i suoi membri avrebbero stretto con alcuni parlamentari e politici locali, imprenditori e personaggi delle forze di sicurezza appartenenti alle etnie del Nord, interessati alla radicalizzazione della violenza al fine di rendere la Nigeria ingovernabile. Tuttavia, almeno per ora, il governo di Abuja non ha manifestato la volontà di affrontare i problemi del Nord con politiche illuminate in grado di migliorarne le condizioni di vita; né sembra avere la disponibilità ad imbastire un reale processo di dialogo con le oligarchie musulmane del Nord. Ma per comprendere quanto sia ampia la frattura tra Settentrione e Meridione, basterebbe dare un’occhiata ai risultati delle elezioni dello scorso aprile: dei 36 Stati che compongono la Federazione, il presidente in carica Goodluck Jonathan, originario del Sud e di fede cristiana, non ha ottenuto alcun consenso tra quelli collocati a nord di Abuja, dove la maggioranza degli elettori ha votato per Muhammadu Buhari, suo principale sfidante e originario di quelle terre. Purtroppo, a questo punto, la guerra civile è davvero dietro l’angolo, non foss’altro perché l’insoddisfazione da parte dei ceti meno abbienti, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione nigeriana, sia al Nord che al Sud, cresce a dismisura. Di fronte all’escalation di violenze perpetrate da Boko Haram, Jonathan ha reagito facendo ricorso al corpo speciale dell’Esercito (Joint Task Force), teste di cuoio note per la spregiudicatezza delle loro azioni contro i ribelli del Delta del Niger. E purtroppo, sebbene la stampa internazionale abbia spesso taciuto, i soldati nigeriani si sono macchiati di numerose uccisioni tra la popolazione civile del Nord, contribuendo a esasperare la frustrazione popolare e rafforzando la propaganda dei terroristi.

Se da una parte è doveroso che il governo di Abuja assicuri la sicurezza dei propri connazionali, non sembra esserci spazio per l’ottimismo. A meno che qualcuno, tra quelli che contano ad Abuja, faccia intendere a Jonathan che l’unità nazionale potrà sopravvivere solo e unicamente affrontando seriamente la questione sociale.

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