Non profit
Niente “cura Bersani” per gli assistenti sociali
Il settore è impermeabile alle liberalizzazioni
Onorari, pubblicità e società multi-professionali: nulla cambia. Il nuovo Codice deontologico non apre alle novità introdotte dalle “lenzuolate”. Anche perché si tratta di un lavoro ancora molto slegato dalle dinamiche del mercato, visto che nell’80% dei casi
si tratta di dipendenti della pubblica amministrazione
Nulla di nuovo. Come se il decreto Bersani non fosse stato convertito in legge. Gli assistenti sociali chiudono la porta alla liberalizzazione dei servizi professionali. Il nuovo codice deontologico, entrato in vigore il primo settembre, non modifica infatti le regole stabilite nel 2002 su onorari, pubblicità e società multi-professionali. Restano in piedi, dunque, le tariffe minime, principale bersaglio dell’iniziativa dell’ex ministro dell’Economia del governo Prodi. E non perché, argomenta la presidente del Consiglio dell’Ordine, Franca Dente, gli assistenti sociali temano la concorrenza. Il rischio, semmai, è che l’eliminazione dei minimi si traduca in un’ulteriore sforbiciata ai contratti che le pubbliche amministrazioni e il privato sociale riservano ai professionisti dell’aiuto. «Non possiamo fare a meno delle tariffe. I nostri iscritti sono già sottopagati. Sia gli enti pubblici, con i cococo e i cocopro, che le cooperative offrono compensi anche di 12-15 euro l’ora», taglia corto Dente.
Nessuna novità anche per la pubblicità. Il codice conferma la vecchia prescrizione: l’assistente sociale può «dare informazioni veritiere e corrette sulle sue competenze professionali» e «pubblicizzarle con rispetto dei principi di verità, decoro e del prestigio della professione». Una norma innovativa (è stata introdotta infatti con quattro anni di anticipo rispetto al decreto Bersani) che, tuttavia, si adegua solo in parte alle norme sulla liberalizzazione. La legge 248/2006 prevede, infatti, che si possano pubblicizzare i titoli, le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Non soltanto le competenze.
Infine, le società multi-professionali. «Il Codice», spiega la Presidente dell’Ordine, «non fa alcun riferimento ad esse. Ma questo non significa che non siamo favorevoli: se non sono vietate, sono ammesse».
Assistenti sociali, dunque, sordi alle liberalizzazioni? Il punto è che si tratta di una professione sostanzialmente sottratta alle dinamiche del mercato. Per due ragioni: perché l’80% degli iscritti è dipendente della pubblica amministrazione e perché i consumatori, gli assistiti cioè, hanno poche leve in mano.
«Nel campo assistenziale il consumatore ha avuto uno spazio importante nel fenomeno delle badanti, ma non si tratta di professioni sociali in senso proprio. Non vedo grandi prospettive a breve termine per gli assistenti: l’utente dei servizi sociali non dispone infatti di molto denaro proprio per comprare assistenza, mentre il tentativo di incentivare il potere del consumatore attraverso i voucher o i titoli sociali non ha costituito quell’innovazione che si sperava», osserva Fabio Folgheraiter (nella foto), professore di Metodi e tecniche del servizio sociale alla Cattolica di Milano. Poco spazio, per le stesse ragioni, per la pubblicità. «Si tratta di un’attività che richiede un mercato privato ampio, vale a dire utenti finali o famiglie che comprano direttamente i servizi dell’assistente sociale, condizione che in Italia è ancora di là a venire». Quale decreto Bersani, dunque, per gli assistenti sociali? «Credo che anche i professionisti che operano nei servizi in qualità di dipendenti», spiega Folgheraiter, «abbiano bisogno di una liberalizzazione ma sui generis: vale a dire un distanziamento dalle dinamiche burocratiche degli enti con un maggiore riconoscimento di autonomia e responsabilità professionale nel lavoro sul campo, quando sono a diretto contatto con l’utenza».
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