Welfare

Nicoletti: con la cavalcata dei ragazzi autistici, mio figlio è diventato un uomo

Dieci ragazzi autistici, una settimana a cavallo nelle campagne del Lazio, Mogol ad accoglierli. Tra loro anche Tommy: papà Nicoletti racconta come suo figlio è cambiato durante questo viaggio. E lancia una sfida a chi si occupa per mestiere di «inclusione»

di Redazione

Ero partito da casa una settimana fa con un bambino, sono tornato ieri sera con un uomo. Non è che lo scriva sull’onda emotiva di uno che ha seguito di persona la Grande Cavalcata dei ragazzi autistici, organizzata dai padri dell'associazione L'emozione non ha voce. Lo scrivo proprio perché Tommy è diventato grande. Non è certo guarito dall’autismo, ma è fuori per sempre da quell’area di fragilità presunta che impedisce a un genitore di ammettere che suo figlio sia cresciuto.
Ho avuto questa certezza quando l’ho visto dormire, sudato e puzzolente, sopra un mucchio di fieno, usando la sella come cuscino. Aveva cavalcato più di sei ore, lo aveva fatto assieme ai suoi amici, autistici come lui. Era stato seguito e accompagnato da persone estranee alle sue abituali frequentazioni familiari. Soprattutto io non c’ero quella mattina a dargli una manata ogni tanto, a porgergli la bottiglietta d’acqua, a mandargli un saluto e chiedergli come stesse. Tommy ce la faceva anche da solo, erano quasi le 16, ancora doveva mangiare, faceva un caldo infernale, accanto a noi c’erano maiali, galline, mucche e altri animali che sguazzavano nel loro strame. Tommy era indifferente a tutto come se quello fosse stato da sempre il suo habitat, si riposava perché  era giusto che lo facesse, ma non si lamentava, non chiedeva nulla, aspettava che dopo aver rifocillato i cavalli, qualcuno facesse girare i panini anche tra i cavalieri.

Dove sono finite le penne rigate, l’unica pasta che sembrava possibile cucinargli? Dove è finito il sughetto filtrato e senza pellicine che gli preparavano come unico condimento che sembrava tollerasse? Dove è finita l’abitudine di stravaccarsi sul divano all’ora dei Simpson? Dove è finito il suo cuscino? Dove sono le crisi oppositive, se qualcuno (che non fossi io) lo avesse contraddetto, dove è finito quel saltare a perdifiato, il mangiarsi le mani, il graffiare, mordere e menare? Non dico che sia guarito, non immagino che tutto questo non tornerà presto a far parte del mio quotidiano. Da lunedì inizia la penosa domanda: “Cosa facciamo fare oggi a Tommy? Chi può occuparsene? Lo porti tu a fare una passeggiatina? Me lo porto io a studio? Viene due ore quello del comune e lo mandiamo a prendere il gelato?” Ordinarie domande di lancinante quotidiano di ogni famiglia d’ autistico che sa di avere in casa un essere umano “da assistere”, perché non si faccia male, non si innervosisca, perché il suo tempo sia meno atroce possibile.

Ho visto in una settimana Tommy e i suoi amici passare giornate come non avrei mai creduto possibile, ma non solo per un ragazzo “disabile”, ma anche e soprattutto per qualsiasi adolescente neurotipico. Hanno lavorato tutti assieme consapevoli di far parte di un team, hanno attraversato boschi, guadato fiumi, cavalcato lungo strade asfaltate sotto al sole, viottoli pieni di rovi, strade di campagna tra mosconi e insetti d’ ogni tipo. Hanno mangiato quando si poteva, riposato solo a fine giornata. Eppure non ho mai visto un gruppo di autistici così diligente e reattivo per un tempo così prolungato. I ragazzi ridevano, evento rarissimo per un autistico, parlicchiavano pure, erano rilassati, rompevano le palle in percentuale minima rispetto alla norma.

Non voglio tirare conclusioni, non ne ho gli strumenti necessari per farlo. Vorrei solo aprire una riflessione sul termine “inclusione” su cui tanto ci stiamo arrovellando. Premesso che i ragazzi autistici ci dicono che abbiamo una fondamentale difficoltà a gestire alcune complessità della vita contemporanea, dei suoi irrinunciabili obblighi di ipersocializzazione, delle sue evoluzioni sociali, urbanistiche, ambientali. Il recupero di abilità necessarie ad affrontare queste difficoltà potrebbe avvenire facendo far loro un cammino a ritroso attraverso modalità di vita quotidiana sicuramente più arcaiche, ma fondamentali per riallacciare patti sicuri e rassicuranti tra l’ essere umano e l’ ambiente in cui vive? E’ possibile che un autistico debba essere guardato a vista nel corridoio di una scuola, senza altro risultato che renderlo infelice e spaventato, ma  possa invece passare una settimana a spasso per le campagne cavalcando e faticando come  uno stalliere per tutta la giornata e alla sera sia palesemente raggiante di soddisfazione? Qualcuno che abbia strumenti scientifici dovrebbe cominciare a studiare seriamente su questa strampalata riflessione.

La riflessione di Gianluca Nicoletti a chiusura della Grande Cavalcata è pubblicata sul blog del giornalista Una notte ho sognato che parlavi insieme a tutto il racconto della settimana a cavallo.
 

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